Si dice che Ludwig Wittgenstein, in una conversazione avuta con un suo allievo poco prima di morire, avesse espresso il desiderio di scrivere la sua filosofia nella forma di racconti o di battute. O forse anche di favolette, chi può dirlo. Con il suo libro, divenuto spettacolo al Teatrosophia di Roma dal 27 al 30 marzo, Giuseppe Manfridi ha voluto dare corpo, voce e presenza scenica a questo desiderio, restituendolo in omaggio al legittimo proprietario, senza per questo rinunciare a farlo proprio. Guidato dalla regia di Claudio Boccaccini e arricchito dalla scenografia di Antonella Rebecchini, lo spettacolo racconta la complessità del pensiero del filosofo in modo divertente e originale.
Intrecciando verità e finzione, le favolette disegnano un Wittgenstein che, con la leggerezza dell’ironia, si mantiene in bilico tra il reale e il possibile, mostrando quanto sottile e porosa possa diventare la linea che li separa. Una prova d’equilibrismo, quella che Manfridi affronta insieme al filosofo viennese, imparando a pensare con lui, a rivolgersi al mondo con il suo sguardo. Un gioco, quindi, in cui la capacità di mimesi, di trasporsi virtualmente nella prospettiva altrui attraversando il tempo e lo spazio, diviene strumento fondamentale di comprensione e di comunicazione.
Linguaggio, realtà, gioco: il Wittgenstein di Manfridi
Come può il linguaggio dire la realtà? Come avviene che, con le parole, ci intendiamo l’un l’altro a proposito di uno stesso mondo? Sono questioni che, dopotutto, si potrebbero anche esprimere così: mettiamo il caso di trovarci nell’imbarazzante inconveniente di dover recuperare un ombrello da un funerale da cui ce la siamo appena svignata; quanto sarebbe più comodo se quest’oggetto avesse anche, per così dire, dei nomi di ricambio, con cui poter dire solennemente: “Mi perdoni, temo di aver dimenticato qui la mia litania”. O ancora, non sarebbe più corretto dire che due amanti, che da tempo non si parlano più, stiano in realtà intrattenendo un fittissimo scambio di non-telefonate, che durando ormai da anni li unisce in una solida relazione fatta di silenzio?
Manfridi gioca sapientemente con le domande di Wittgenstein, e nel restituirle al pubblico le rimette in circolo, dà loro nuova vita. Ed è proprio in questa riattivazione della domanda sul linguaggio che, in modo geniale, se ne indica la risposta. Le parole hanno senso perché rimandano oltre se stesse, oltre gli oggetti a cui strettamente si riferiscono. Le parole rimandano ad altre parole, al funzionamento di un mondo, a una realtà condivisa rispetto alla quale ci intendiamo reciprocamente. “Le favolette di Wittgenstein” affascinano nel portare in scena questo movimento: mettendo in dialogo realtà e immaginario, l’attuale con il possibile, Manfridi-Wittgenstein mostra come il senso del linguaggio si intuisce in questo rapporto con l’esteriorità, nel gioco che prende vita tra noi.
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