Barbie, recensione no-spoiler del film che prende a morsi il femminismo

Con una sceneggiatura sagace, un’estetica pastello e un cast interessante, la regista Greta Gerwing porta al cinema patriarcato e sorellanza

Emanuela Felle
6 Min di lettura

Può essere qualsiasi cosa: una massiccia e intelligente operazione di marketing, un’ironica e concentrica critica sociale, la risemantizzazione del girl power, lo spazio narrativo in cui convergono le contraddizioni (e il superamento delle stesse) del femminismo pop, ma Barbie è soprattutto cinema.

Barbie, l’esplosione del rosa

Guardando oltre i numeri clamorosi – che tutto dicono e molto ignorano – il film di Greta Gerwing ha generato, innanzitutto, file di comitive in rosa (ma anche settuagenari borbottanti in fila per Mission Impossibile che ridicolizzano la scelta del dresscode) e sale strabordanti di persone, dalla famiglia alla coppia, dal curioso al cinefilo, che davanti a uno schermo ridono o piangono e che fuori dallo spazio fisico del cinema continuano a parlarne. Il film Barbie sta calimitando a sé un esercito di spettatori abbagliati da tutte le nuances di rosa ed esagitati davanti al mondo di Barbieland.

Cos’è questo raduno collettivo di una folla contagiata dallo stesso sentimento? Cos’è la tensione dello spettatore verso il mondo narrato attraverso lo schermo? Cos’è il suo progressivo allungarsi e immergersi dimenticandosi del confine fra non-fiction (realtà) e fiction (film)? Cos’è se non cinema?

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Con già 337 milioni di dollari di incassi, Greta Gerwing sta facendo la storia del botteghino

Greta Gerwing e la scelta del cast

Greta Gerwing, nota regista indie, già attrice, ora famosa penna femminista, confeziona un film con tempi comici serrati, un’estetica piacevole, un cast interessante che va dall’indicibile Margot Robbie ai volti di Sex education (fra cui Emma Mackey nel ruolo di Barbie fisica – e anche, azzarderei, versione castana di Robbie – e Connor Ryan Swindells nel ruolo dell’impiegato Aaron Dinkins e traghettatore della narrazione dal primo al secondo atto).

Il rimpasto del femminismo storico

È il film che per rendersi accessibile sceglie deliberatamente di iper-semplificarsi in alcuni punti e che, alla spocchia di consacrarsi come film di nicchia, sceglie un pubblico globale cui trasmettere messaggi politici. Sì, politici: figli di epoche di movimentazioni femministe e pagine scritte che strisciano nella sceneggiatura ed emergono in ogni punto del film come orizzonte di riferimento.

Barbie, in toni pastello e da case di plastica, dagli occhioni della protagonista e dall’irriducibile genuinità di Ken (Ryan Gosling), pone sullo schermo patriarcato – come sistema di pensiero invisibile e asfissiante che colpisce uomini e donne da un mondo all’altro –, differenza sessuale, autocoscienza (in un accorato monologo di America Ferrera nei panni di Gloria), sorellanza, analisi del maschile nel mondo post-patriarcale, la necessità di instaurare un nuovo modello sociale che non sia smaccatamente maschilista (e quindi prevaricante), ma neanche un neo-matriarcato rosa fluo.

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America Ferrera interpreta Gloria, un’impiegata della Mattel

Tutti gli ingredienti del film

Centoquattordici minuti scivolano via senza intoppi. C’è tecnica applicata in modo sagace: la narratrice irrompe nello spazio testuale del film creando curiose interferenze, finanche sovrapposizioni fra attrice e personaggio.

C’è musical: momenti corali di musica e ballo che fanno scalpitare dalla sedia per il loro gusto fruttato anni Ottanta.  C’è commozione: il parallelismo materno fra Gloria e sua figlia e fra Barbie e la sua ideatrice storica Ruth Handler che genera, nell’ultimo colpo di coda del film, un quadrilatero di delicata bellezza e l’essenza ultima della crescita: il rifiuto del materno come premessa dell’autonomia.

Ci sono concentrici livelli di critica: al modello di Barbie stereotipo, al patriarcato in tutte le sue versioni (quello del Mondoreale e quello, ribaltato, delle Barbie imposto ai Ken), a Mattel – che si lascia prendere in giro e accetta, plasticamente, che la sua bambola sgattoioli fuori dalla sua scatola nel suo percorso di autonomia. C’è rappresentazione e condivisione che deflagrano nella convinzione di puntare a una straordinaria ordinarietà.

Barbie prende a morsi il femminismo

Barbie è un comfort film, che sa parlare a tutti, ma che strizza l’occhiolino a pochi, creando un inconsueto canale di empatia selettiva. Questo lo rende un film di stoffa pregiata, un prodotto che fa le scarpe ad altri e sparuti tentativi di film femministi e che si gode la sua meritata medaglia di fenomeno sociale.

Non un manifesto del femminismo – come molti hanno detto troppo velocemente – e neanche la parodia del maschile – come moltissimi anti-Ken impauriti hanno avvisato – ma un film, che in quanto tale, prende a morsi la realtà e i sistemi di pensiero che la abitano, per rimpastarli in parole, immagini e emozioni che travalicano lo schermo e smuovono le coscienze. D’altronde, il cinema è soprattutto idee in movimento.  

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