L’illusione pericolosa di colmare il vuoto della politica con la riforma delle istituzioni

Dal 1993 sono state quattro le riforme elettorali: sistema maggioritario corretto (Mattarellum); proporzionale corretto con soglie di sbarramento (Porcellum); la legge elettorale del 2015 (Italicum); infine la legge del 2017 (Rosatellum). Da quando è entrata in vigore, ossia dal 1° gennaio 1948, la Costituzione italiana è stata modificata circa una volta ogni quattro anni. In 75 anni sono state approvate 46 leggi costituzionali, tra cui 20 di riforma della Costituzione. Le altre 26 leggi costituzionali non hanno modificato il testo della Costituzione, ma sono servite, tra le altre cose, per approvare o modificare gli statuti delle regioni a statuto speciale. Quali benefici sono venuti all’Italia da questo imponente cantiere riformatore? La stagione di Tangentopoli ha segnato la fine dei partiti politici legittimati dalla partecipazione al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) e alla Resistenza. Il vuoto che hanno lasciato ha inghiottito la politica il cui ruolo è stato assorbito dagli attuali comitati elettorali impropriamente chiamati partiti

Jean-François Paul de Gondi
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Una riforma costituzionale ogni quattro anni, comprendendo in questa locuzione anche le leggi di rango costituzionale, e non solo la riforma della Costituzione, non è poca cosa per un Paese che si vorrebbe conservatore e impermeabile a ogni cambiamento. Dal 1993 a oggi sono state fatte quattro diverse leggi elettorali, una ogni 7 anni, per l’elezione del Parlamento. Tanto fervore riformista dovrebbe indurre a un qualche ottimismo anche i più scettici. Succede, invece, che anche i più ottimisti inarcano il sopracciglio quando affrontano le prospettive dell’Italia. Perché la stagione di Tangentopoli, con la polverizzazione dei partiti usciti dalla Resistenza o in essa ricostituiti (Dc, Pci, Psi, Pri, Pli, Psdi) ha lasciato ferite mai rimarginate nell’opinione pubblica e un partito, il M5S, che dei veleni di quella vicenda si nutre ampiamente e ne diffonde a piene mani.

     La democrazia senza i partiti politici organizzati, con la loro rete territoriale di sezioni, con i loro organi dirigenti, con le correnti, l’associazionismo e la platea di militanti, è un terreno inesplorato di cui da qualche tempo stiamo misurando le insidie e le trappole. La “partitocrazia”, come Marco Pannella non si stancava di denunciare il sistema dei partiti (ma il termine non è suo: lo coniò negli anni ‘60 Giuseppe Maranini, giornalista e saggista, autore di una straordinaria “Storia del potere in Italia”, lavoro centrato sulle leggi elettorali dal 1919 al 1963, perché è la legge elettorale lo strumento che assegna il potere) è finita sul banco degli imputati come colpevole principale, se non esclusivo, della diffusa rete di corruzione nella politica e nella società italiana.

     Ai processi sommari di Tangentopoli si è accompagnata inevitabilmente l’implosione del sistema politico sulle cui macerie si sono insediati nuovi gruppi organizzati secondo criteri di affiliazione diversi da quelli dei partiti. La condivisione di interessi di categoria, di appartenenza sociale o sindacale, di condivisione territoriale hanno sostituito il dibattito delle idee, il confronto libero e le discussioni sui grandi valori sociali, ideali, civili. La politica ha assunto velocemente la funzione di organizzazione di interessi concreti e immediati ai quali dare una rappresentanza parlamentare, senza più la forza e il gusto di alzare lo sguardo dal presente per disegnare un orizzonte futuro. Nessuno degli attuali leader sarebbe in grado di esprimere un’idea compiuta dell’Italia che vorrebbe da qui ai prossimi trent’anni.

     La stessa velocità con cui si consumano le leadership (Renzi, Salvini, Conte) è la conferma che la politica ha perso il senso del futuro e sopravvive in un eterno presente non riuscendo più a trovare il suo ubi consistam. L’idea stessa della stabilità dei governi come fattore di crescita del Paese e di benessere per i cittadini (idea già architrave nella ”Storia d’Italia” commissionata dai Medici a Francesco Guicciardini) non ha prodotto nessun confronto, acceso e divisivo quanto si vuole, ma pur sempre rivelatore di quella tensione morale e civile senza la quale la politica si riduce a organizzazione spicciola dell’esistente.

     Un governo stabile, eletto secondo regole rispettose della democrazia, è sicuramente di grande beneficio per qualsiasi Paese. Ma da che cosa nasce la stabilità del potere esecutivo? Nasce dalla sua inamovibilità garantita da ferree norme costituzionali, o dalla salda coesione di un programma, di valori e di principi condivisi fra le forze della maggioranza che lo sostiene? La domanda è retorica tanto ovvia è la risposta. Un esecutivo reso stabile dalle norme sarà un esecutivo politicamente impoverito, con le forze politiche ridotte a debolezze. Se il premier viene eletto direttamente, e la sua permanenza a palazzo Chigi è la conditio sine qua non per evitare lo scioglimento del Parlamento, la stabilità di quel governo si manifesta nella forma di una tirannia parlamentare: deputati e senatori dovranno tornarsene a casa se non dovessero condividere un progetto, una legge o un provvedimento del premier. Una stabilità del genere verrebbe alimentata dall’ossigeno tolto al Parlamento. Nel modello Westminster, a Londra, il primo ministro che si vede bocciata una legge importante, si dimette, ma il Parlamento rimane: esattamente il contrario di ciò che avverrebbe in Italia. La democrazia parlamentare sulle rive del Tamigi è stabile almeno quanto la monarchia. Hanno la stessa legge elettorale da qualche secolo, e i Windsor regnano da 450 anni. Ecco la stabilità combinata alla libertà e alla democrazia parlamentare.

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