Nel rapporto “Hydrogen Roadmap Europe”, la UE stima che l’elemento “verde” potrebbe coprire entro il 2050 fino al 24% della domanda finale di energia, creare 5,4 milioni di posti di lavoro e tagliare 560 Mt di CO 2 . Numeri che ad oggi appaiono irrealistici
L’idrogeno sta vivendo un momento di grande boom politico. Nel 2019, solo Francia, Giappone e Corea avevano strategie sull’idrogeno. A fine 2021, gli stati erano 17. Sull’onda del conflitto in Ucraina, oggi siamo ad oltre 30 Stati ed almeno altri 15 hanno in cantiere piani o industrie che hanno iniziato ad investire nel business dell’idrogeno. Il trend è spinto dalla UE. I politici di Bruxelles considerano l’idrogeno “verde” cruciale per la decarbonizzazione e la neutralità climatica al 2050, ed elemento salvifico in grado di ridurre la dipendenza dai fossili, aumentare la sicurezza energetica e degli approvvigionamenti, migliorare le condizioni economico-industriali, calmierare i prezzi dell’energia, sviluppare le FER, ecc.
La geoenergia dell’idrogeno impone grande cautela. La strategia della UE è una visione affascinante e lanciata nel momento giusto sfruttando le paure della crisi, i timori del caro energia e il mantra eco-ambientalista. Si tratta però di una strategia sulla cui fattibilità complessiva e sul peso reale dell’idrogeno pulito nel sistema energetico complessivo sussistono molti dubbi.
L’idrogeno è un vettore energetico e non una fonte. Pur essendo l’elemento più leggero e abbondante del pianeta, è raramente disponibile in natura allo stato libero e molecolare e lo si trova combinato con altri elementi, principalmente nell’acqua (H 2 O) o negli idrocarburi. Pertanto, l’idrogeno va prima estratto energeticamente dalla molecola.
Esistono diverse forme di idrogeno secondo la tecnologia estrattiva: “verde”, prodotto dall’elettrolisi dell’acqua con elettricità da fonti rinnovabili (FER); “grigio”, prodotto dal gas naturale; “blu”, prodotto dal gas naturale con tecnologia di cattura e stoccaggio della CO 2 (CCUS); “viola”, prodotto dall’energia nucleare a zero emissioni; “turchese”, prodotto dalla pirolisi del metano; “nero”, prodotto dal carbone o dal petrolio; “marrone”, prodotto dalla lignite. L’idrogeno verde (FER), blu (con CCUS) e viola (nucleare) sono gli unici “puliti”.
L’idrogeno possiede un’alta densità energetica, cioè è in grado di produrre elevate quantità di energia per unità di massa. Se paragonato ai combustibili fossili, 1 kg di idrogeno contiene la stessa energia di 2,4 kg di gas naturale, 2,8 kg di benzina e circa 5 kg di carbone. Altri vantaggi dell’idrogeno sono che può essere tecnicamente trasportato usando gli attuali gasdotti con modesti investimenti e accorgimenti, e la sua elevata efficienza di conversione.
Sulla spinta del conflitto in Ucraina e la crisi energetica, la UE ha emesso il Piano “REPowerEu” che ha raddoppiato gli obiettivi sull’idrogeno “verde” che la stessa UE si era data pochi mesi prima. Il nuovo Piano prevede nella Fase 1 al 2024 l’installazione di almeno 6 GW di elettrolizzatori con produzione di 1 milione di tonnellate (Mt) di idrogeno (rapporto 6:1); nella Fase 2 al 2030, almeno 40 GW di elettrolizzatori installati e produzione fino a 10 Mt (rapporto 4:1); nella Fase 3, dal 2030 al 2050, piena maturità tecnologica e applicazione su larga scala dell’idrogeno verde con una domanda al 2050 di circa 60 Mt e un forte aumento della produzione elettrica da FER, il cui 25% verrebbe usato per produrre il “verde”. In ogni fase, altrettanto idrogeno “verde” dovrebbe essere importato.
Dati alla mano, tecnicamente oggi il rapporto tra elettrolizzatori installati e produzione è circa 9-10:1. A metà del 2021, la capacità globale degli elettrolizzatori era pari a poco più di 300 MW. Grazie alla spinta UE, oggi in Europa la capacità dei produttori di elettrolizzatori è di 1,75 GW l’anno. Produrre 10 Mt di idrogeno FER in UE richiederebbe una capacità installata di elettrolizzatori pari a 90-100 GW, secondo i fattori di utilizzo e i tassi di efficienza. Le stesse industrie europee dell’idrogeno hanno stimato un obiettivo massimo al 2025 di 17,5 GW di elettrolizzatori installati, pari ad un aumento del 1.000% in 3 anni. Il risultato sarebbe comunque insufficiente!
Nel rapporto “Hydrogen Roadmap Europe”, la UE stima che l’idrogeno “verde” potrebbe coprire entro il 2050 fino al 24% della domanda finale di energia, creare 5,4 milioni di posti di lavoro e tagliare 560 Mt di CO 2 . Numeri che ad oggi appaiono irrealistici.
L’idrogeno pulito presenta problematiche ancora non risolte, oltre quelle ben note del suo elevato costo di produzione e difficoltà tecniche di trasporto e stoccaggio.
Generare idrogeno da FER è un processo energy intensive. Oggi per produrre 1 kg di idrogeno servono circa 50-55 kWh di elettricità, circa 7 volte in più del consumo elettrico giornaliero di una famiglia italiana media (7,4-8 kWh giorno).
Vi è un problema di instabilità delle forniture del “verde”. L’elettrolizzatore funziona bene quando le FER generano elettricità. Ma le FER per loro natura sono intermittenti e questo pone problemi alla continuità di produzione di idrogeno. A ciò si associa il rischio di dover costruire un quantitativo di impianti FER spropositato sul territorio. Per dare un’idea, l’Europa utilizza oggi 10 Mt di idrogeno l’anno e la domanda dovrebbe arrivare a 50 Mt intorno al 2040, per cui servirebbero circa 2.700 TWh di elettricità aggiuntivi. Per capire le proporzioni, nel 2021 eolico e solare insieme hanno prodotto circa 2.900 TWh a livello mondiale e 550 TWh in UE. Pertanto, solo per coprire la domanda di idrogeno in UE sarebbe necessario usare tutta l’attuale energia eolica e solare del mondo oppure 5 volte tutta quella UE e solo per produrre idrogeno “verde”. Se gli obiettivi saranno confermati, l’installazione di nuova capacità FER dovrà avvenire ad un passo e magnitudo mai visti nella storia.
Vi sono anche problematiche tra le stesse tipologie di idrogeno. A fine 2021, la domanda globale di idrogeno è stata di circa 90 Mt. Oltre il 91% è stata soddisfatta da idrogeno “grigio”, con emissioni di CO 2 calcolabili in circa 900 Mt (carbon intensive), equivalenti alle emissioni combinate di CO 2 di Regno Unito e Indonesia. Ciò apre a due grandi tematiche: numero di progetti rispetto agli obiettivi politici e sostenibilità dei costi di produzione del “verde”. Nel mondo vi sono circa 350 progetti “verdi” in fase di sviluppo con un potenziale di 54 GW entro il 2030 e altri 140 progetti in fase iniziale per ulteriori 35 GW. Anche ipotizzando che tutti gli 89 GW vengano realizzati, la fornitura globale aggiuntiva di idrogeno “verde” sarebbe di circa 9-11 Mt entro il 2030. Parlando di idrogeno “blu”, vi sono 16 progetti in fase avanzata per una produzione di 0,7 Mt di idrogeno l’anno e 50 progetti in fase di sviluppo per circa 9 Mt l’anno entro il 2030. Canada e Stati Uniti sono leader in questo settore. Al massimo, la somma di idrogeno “verde” e “blu” garantirebbe una produzione aggiuntiva di circa 18-20 Mt. Siamo lontanissimi dagli 80 Mt richiesti entro il 2030 nel rapporto Net-Zero by 2050 della IEA per il settore energetico globale (cd. “scenario NZE”) con l’obiettivo di azzerare le emissioni di CO 2 entro il 2050. Inoltre, adottare una strategia industriale per l’idrogeno costa ad uno Stato almeno 40 miliardi di dollari, escludendo la quota d’investimento del settore privato. Secondo le stime dell’IEA, ne servirebbero 1.200 miliardi entro il 2030 per avere una coerenza con lo scenario NZE. Di nuovo, numeri assolutamente irrealistici.
In termini di costi di produzione, al netto della crisi ucraina, produrre idrogeno “verde” può costare da 2 a 7 volte di più che produrlo dal gas naturale (“grigio”). Secondo i prezzi regionali del gas, il costo di produzione del “grigio” varia da 0,6 a 1,8 USD/kg. Se si aggiungono le tecnologie CCUS (“blu”), ancora però allo stato pilota, il costo aumenta a circa 2,2-3,7 USD/kg. L’idrogeno “verde” costa da 3,5 a 8 USD/kg. L’obiettivo della UE è portare il costo dell’idrogeno “verde” sotto i 2 USD/Kg entro il 2030. Appare poco realistico su base sistemica. Lo potrebbe essere ma a condizione di mantenere molto alti i prezzi del gas e della CO 2 oppure per progetti pilota in zone geografiche con grandi risorse FER e basse spese in conto capitale e operative. Globalmente, nel lungo periodo, i costi dell’idrogeno “verde” potrebbero scendere nell’intervallo 1,5-3 USD/kg, secondo il costo e i fattori di capacità delle FER, efficienza dell’elettrolizzatore e i tassi di interesse associati alla finanziabilità dei progetti. Nell’area Euro-Mediterranea, oggi si possono stimare i costi di produzione del “verde” in 3.5-5 USD/kg secondo la tecnologia e la zona. Si tratta di una discreta base di partenza.
La mappatura dell’idrogeno registra al momento sviluppi propulsivi ma disordinati e asimmetrici. Se lo slancio per l’idrogeno pulito è un fenomeno mondiale, nella pratica ogni regione sta prendendo una strada diversa secondo le proprie geo-specificità, necessità e catene di approvvigionamento. Oltre alla “regionalizzazione da fonte” vi sarà una “pan-regionalizzazione da export”. Essendo l’idrogeno dipendente dalle fonti primarie che lo producono, potremmo aspettarci la formazione di macroregioni esportatrici: una basata sull’abbondanza di combustibili fossili a basso costo e con CCUS (Australia, Canada, Medio Oriente e Russia) e una basata su abbondanti risorse FER (Africa, America Latina e Medio Oriente). L’idrogeno da nucleare vivrà una vita indipendente e trasversale.
L’idrogeno può anche incidere sulla geografia del commercio energetico, grazie ai settori d’uso principali (industria hard-to-abate e trasporto pesante) e alla realizzazione di nuovi partenariati.
Per essere sistemica una fonte o vettore deve almeno garantire sicurezza, efficienza e sostenibilità lungo la filiera, le tecnologie e la catena del valore, che ingloba il prezzo. L’idrogeno mostra ancora problematiche complesse e poco risolvibili nel breve periodo, soprattutto in termini di tecnologie di produzione, interconnessioni delle linee di trasporto, capacità di stoccaggio, finanziabilità di progetti, costi di produzione, revisione dei sistemi regolatori e autorizzativi.
È vitale avere un approccio scientifico e tecnologico neutrale, anche al fine di massimizzare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse a disposizione e nell’attuazione futura dei principi di economia circolare. Sostenere, come fa la UE, che tutto l’idrogeno dovrà essere subito tutto “verde” significa volersi tuffare in una piscina senza aver prima visto se c’era acqua o era vuota e quanto era profonda! La UE dovrebbe studiare tutte le tecnologie per l’idrogeno pulito, massimizzarne le differenti caratteristiche a vantaggio di settori e geografia specifici, sfruttando il vantaggio industriale di possedere oggi circa il 45% della capacità di elettrolizzatori installata a livello globale.
Politica e Governi parlano solo di produzione. Senza un massiccio sforzo per incentivare la creazione della domanda, i prezzi non potranno allinearsi in modo sostenibile se non in un orizzonte di medio-lungo periodo. Tale sforzo può avvenire solo nel periodo di transizione energetica, con una revisione dei sistemi normativo-regolatori, politiche di supporto e incentivi alla produzione domestica e ai consumi. In questo modo, si potrà accelerare il sorpasso della domanda di idrogeno pulito su quello di origine fossile, bilanciare domanda e offerta, giustificare investimenti in infrastrutture e progetti, impattare sulla sostenibilità del prezzo dell’idrogeno e delle fonti usate per la sua estrazione e, perché no, mandare fuori mercato il prezzo della CO 2 con una revisione dell’Emission Trading System.
Per avere un ruolo nel processo di decarbonizzazione del sistema energetico, l’idrogeno dovrà avere un indirizzo d’uso molto preciso fin da ora. Ad esempio, non essere usato nei settori elettrificabili e nel trasporto leggero, ma concentrarsi nel trasporto pesante e nell’industria hard-to-abate. Questa scrematura permetterebbe d’impostare un piano di lungo periodo per cercare di massimizzare il potenziale dell’idrogeno pulito nelle transizioni e sistemi energetici, in linea con gli obiettivi climatici globali e contribuendo alla diversità e sicurezza dei mix energetici nazionali e regionali.
Ultimo aspetto riguarda l’Italia. Dovrà cercare di sfruttare la filiera dell’idrogeno per rafforzare il proprio ruolo nella regione Euro-Mediterranea. Per farlo, oltre a sviluppare una filiera nazionale dell’idrogeno, l’Italia dovrebbe farsi promotrice della creazione di capacità di produzione e infrastrutture interconnesse con la regione BMENA. Germania, Francia, Spagna, Olanda e Portogallo si sono già mossi. Un segnale che Roma deve cogliere. A ciò va aggiunto che l’alto costo del trasporto dell’idrogeno comporterà, almeno per i prossimi anni, un suo consumo maggiore dove viene prodotto o nelle sue vicinanze. L’Italia può giocare la carta del nearshoring o “prossimità globalizzata”. Grazie alla sua posizione geografica e all’interconnessa rete gasiera può garantire sostenibilità prima degli altri e agire come hub di entrata del Mediterraneo e dell’Europea in proiezione Nord. Peraltro, a tutto vantaggio della UE che vedrebbe, da un lato, realizzata la strategia di usare l’idrogeno per realizzare una leadership industriale e rafforzare l’autonomia strategica, e, dall’altro lato, consolidare la politica di Vicinato con i Paesi confinanti meridionali e orientali fondamentale per la stabilità regionale.
Una cooperazione trans-regionale a guida mediterranea con in testa l’Italia realizzerebbe quel “multipolarismo imperfetto dell’idrogeno” che è la migliore soluzione per aumentare la capacità di produzione, ridurre i prezzi in modo accelerato, lavorare con standard normativo-regolatori culturalmente simili, sfruttare le linee di trasporto esistenti, aumentare l’efficienza della logistica e delle industrie pesanti energivore, il tutto in modo più eco-sostenibile.
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