La vita sul fronte politico si fa ogni giorno più dura. Per tutti, visto che i leader sono di fatto già in campagna elettorale. Per Meloni però i problemi sono amplificati per molte e alcune ovvie ragioni. È la presidente del Consiglio e leader della forza di maggioranza relativa, alla guida di una coalizione di destra-centro solida nei numeri, mai politicamente impensierita da opposizioni evanescenti a dispetto della loro radicalità.
Dispone, insomma, se non tutte certo delle carte migliori per affrontare senza troppi patemi i mesi di avvicinamento al voto europeo del 6-9 giugno 2024. Eppure qualcosa non torna nei suoi calcoli. Non torna nella sua maggioranza, non torna sul piano europeo dove pure ha colto importanti risultati, primo fra tutti un accreditamento personale al quale non fanno ombra le ultime, residue riserve di qualche cancelleria.
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Si prenda la storia del Mes. Il Meccanismo europeo di stabilità è stato ratificato dai Paesi dell’eurozona, con l’eccezione dell’Italia. Meloni ha ragione quando, come ha fatto martedì 12 dicembre alla Camera, ricorda alle opposizioni che hanno avuto 4 anni di tempo per ratificarlo. Perché non è stato fatto? È la sua più che legittima domanda. Alla quale fa eco la Commissione europea: e perché, se non è stato fatto finora, continuate a non farlo? È il cane che si morde la coda. Ma stiamo all’oggi: che cosa impedisce al governo di presentare un disegno di legge di ratifica del Mes in Parlamento? I motivi, per quel che è dato sapere, sono almeno due ed entrambi di merito.
Vediamoli: la proposta di riforma riguarda le condizioni necessarie per la concessione di assistenza finanziaria e sui compiti svolti dal MES in tale ambito, e le modifiche proposte sono di portata complessivamente limitata; la riforma non prevede né annuncia un meccanismo di ristrutturazione dei debiti sovrani, non affida al MES compiti di sorveglianza macroeconomica. Essa, inoltre, attribuisce al MES una nuova funzione, vale a dire fornire una rete di sicurezza finanziaria (backstop) al Fondo di risoluzione unico (Single Resolution Fund, SRF) nell’ambito del sistema di gestione delle crisi bancarie.
L’eventuale ricorso al Mes non implicherebbe affatto la ristrutturazione del debito sovrano. Ma, cosa più importante, la ratifica dei parlamenti nazionali non significa che quel Paese “deve” utilizzare il Mes. Significa, al contrario, che ciascun Paese dell’eurozona può far i ricorso nel caso di rischi sistemici di una sua grande banca. Perché il Mes entri in funzione è necessario però che tutti i Paesi lo abbiano ratificato. L’Italia sta bloccando la riforma del Mes e impedisce, di fatto, il suo uso a tutti gli altri Paesi.
L’altro motivo di merito per cui il governo traccheggia sulla ratifica del Mes riguarda il Patto di stabilità. Meloni, e su questo c’è l’accordo di tutta la maggioranza, pensa di usare il Mes come moneta di scambio per strappare condizioni migliori nella riforma del Patto di stabilità. Se non è un ricatto verso l’Europa, è qualcosa che un po’ gli assomiglia. Ma aver scelto la logica del “pacchetto unico”, cioè ratifica del Mes e riforma del Patto di stabilità con la richiesta italiana di tenere le spese per la difesa e la sicurezza fuori dal perimetro del deficit, sta complicando l’intesa su entrambi i fronti.
Meloni sta affrontando la trattativa con il consueto piglio. Una carta pesante che gioca a Bruxelles è la ferrea determinazione messa da lei, e dal guardiano dei conti, Giancarlo Giorgetti, nel blindare i saldi di bilancio. Forse (la cautela è d’obbligo) per la prima volta non ci saranno emendamenti della maggioranza alla quale si concederà tutt’al più lo sfogatoio degli ordini del giorno. Le richieste di Forza Italia di ripristinare parzialmente il superbonus sono state fin qui respinte con successo da Giorgetti e Meloni ed è difficile credere che Tajani autorizzerà i suoi a presentare emendamenti in questa direzione. Un inciampo sulla legge di bilancio avrebbe conseguenze rilevanti sulla maggioranza, sui conti e nel rapporto con l’Europa.
Sotto questo aspetto, è ragionevole riconoscere a Meloni di essere uscita dalla foresta del populismo che tanta fortuna elettorale le ha portato. Si trova oggi al centro del guado. Sull’altra sponda c’è l’approdo in Europa per il quale sono richieste credenziali di cui lei dispone ma che è tentata di far pesare oltre ogni ragionevolezza. È un sentiero stretto e scivoloso, come si è visto martedì 12 dicembre quando nella replica alla Camera ha rivolto un inaspettato attacco a Mario Draghi. Subito, è vero, corretto nelle dichiarazioni fuori dall’Aula e ancora nell’intervento al Senato del 13 dicembre.
Perché l’indice contro Draghi, cioè contro colui che appare come il candidato più accreditato per succedere a von der Leyen o a Michel, come presidente del Consiglio europeo? Le voci che vorrebbero Meloni piuttosto fredda verso la proiezione europea del suo predecessore non ne spiegano le ragioni. Si può solo ipotizzare che i recenti interventi pubblici di Draghi, tutti favorevoli ad accelerare sul piano dell’integrazione politica per vincere le resistenze sovraniste e nazionaliste, non sono facilmente digeribili da quei leader, e Meloni fra essi, che agitando la bandiera del sovranismo hanno colto importanti successi elettorali. Ma questo è un discorso che vale prima del 9 giugno. Dopo, come ci ha mostrato Meloni dopo il 25 settembre 2022, si gioca un’altra partita.
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