Si vivono settimane e mesi che lasceranno un’impronta profonda nella storia di questo tempo e, più in piccolo, nella storia del Pd, almeno per come lo abbiamo conosciuto dalla sua nascita, nel 2017. L’impronta è quella di Elly Schlein, la segretaria che in pochi mesi ha liquidato anni di governo di centrosinistra con il Pd perno di ogni alleanza, pienamente inserito nel main stream europeo e atlantico. Tutto questo non c’è più. Schlein ha tolto gli ormeggi e il Pd si trova a navigare in un mare da cui sembrava essere uscito. Dovrà affrontare tempeste di radicalismo, fortunali di demagogia e populismo, il tutto in nome di una prospettiva unitaria delle sinistre. Prospettiva, a ben vedere, in cui il Pd è destinato a essere ridotto a forza di pura testimonianza. Al timone ci sono Giuseppe Conte, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. In cambio di una manciata di voti, Schlein ha ceduto l’anima del partito al M5S. Non è un matrimonio, anche se c’è un officiante, Goffredo Bettini, impaziente di celebrarlo.
Schlein si è dato un obiettivo sicuramente ambizioso, non si sa quanto redditizio in termini politici prima che elettorali per il suo partito: sminare il terreno per stringere rapporti sempre più stretti sul piano locale, a partire dalle prossime elezioni regionali (Veneto, Campania, Puglia, Marche). Per raggiungerlo, però, Conte ha imposto un dazio e ogni giorno alza di qualche centimetro l’asticella dove si collocano gli accordi. Ecco allora la candidatura di Roberto Fico in Campania (vincendo, sarebbe la seconda regione a guida M5S). Ecco una mozione di politica estera su Gaza, con la condanna del governo israeliano (ma silenzio totale sull’Ucraina). Conte continua ad additare Trump “uomo di pace”, e Schlein tace. Meloni incontra Trump, e Schlein la critica per quello che considera un gesto di sottomissione. I capigruppo M5S indicano Trump e Putin come gli unici impegnati a cercare il negoziato contro un’Europa “bellicista”. Dal Pd nessuna reazione. Schlein ha rinunciato a ogni rapporto minimamente dialettico con Conte. Il Pd è una nave alla deriva. Conte è il rimorchiatore che può condurla in porto, ammesso che da qui al 2027 conservi la disponibilità a sottoscrivere un accordo elettorale. Perché il rischio mortale per Schlein sarebbe di apprendere da Conte, alla vigilia delle prossime politiche, che il M5S correrà da solo. Che cosa penserebbe l’elettorato del Pd dopo due anni di inseguimento sfiancante al populismo di Conte?
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Schlein si è accollato, e la cosa più grave è di averlo fatto in piena coscienza, il compito impossibile, per lei e per chiunque al suo posto pensasse di raggiungere l’obiettivo, di persuadere Conte a stringere un’alleanza strategica. Alla quale Conte guarda come il diavolo guarda all’acqua santa. Come può Schlein ritenere ragionevolmente possibile imbrigliare il M5S quando proprio nella competizione con il Pd può trarre nuova linfa e nuovi consensi? Schlein ha venduto l’anima del Pd, nave disalberata priva di una direzione di marcia, in cambio di una speranza che Conte si guarderà bene di trasformare in certezza. È un partito alla deriva, dopo due anni di segreteria Schlein, il Pd che riempie le cronache con le sofferenze e le contorsioni di quella corrente riformista che si vorrebbe sempre pronta a rompere con la segretaria. Salvo fermarsi un attimo prima. Perché se l’assalto dovesse fallire, chi potrà più tenersi la cadrega a Strasburgo o a Roma? Sono calcoli di questo genere, meschini finché si vuole, che frenano quel chiarimento che sarebbe assolutamente necessario e di vitale importanza per certificare l’essere in vita del Pd. Conte non ha fretta alcuna. Ogni rinvio nel Pd sono scatole di voti che transitano a lui.
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