Se studi in Italia, diventi cittadino italiano, una verità semplice ma difficile da accettare per partiti sempre in campagna elettorale

La proposta di Forza Italia sullo Ius scholae era stata voluta da Silvio Berlusconi e una proposta, anche più avanzata, era stata approvata alla Camera nel 2015 da partiti allora all’opposizione e oggi in maggioranza. Perché negare la cittadinanza a ragazzi che abbiano compiuto almeno due cicli di studio in Italia? E perché va concessa a chi, arrivato in Italia, mostra di conoscere già la lingua e la cultura? Le resistenze di Lega e Fratelli d’Italia, insieme allo scetticismo del Pd, rendono difficile il cammino della proposta

Jean-François Paul de Gondi
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Diventare italiani si potrà una volta completati due cicli di studio. Detta così è un’affermazione semplice semplice, quasi da incarto di un bacio Perugina. Ci stanno pensando Forza Italia e Antonio Tajani, prima di loro ci hanno pensato i figli di Berlusconi e prima ancora ci aveva pensato il Cavaliere, nel suo secondo governo. L’idea viene da lontano, vecchia di almeno vent’anni, e voleva essere una risposta all’immigrazione che sfuggiva ai percorsi ufficiali e, nello stesso tempo, favorire un percorso di legalità correlato al livello di studio e di integrazione linguistica e culturale.

     Si sa la piega che ha preso la questione quando da situazione emergenziale (la prima legge sull’immigrazione porta la firma di Claudio Martelli, nel 1990) venne poi affrontata come tema strutturale (legge Turco-Napolitano, nel 1992) prima di una svolta in senso restrittivo (legge Bossi-Fini, 2002) e la creazione dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Nel corso degli ultimi 30 anni è cambiato più volte l’approccio politico all’immigrazione. L’Italia ha conosciuto stagioni di apertura indiscriminata all’accoglienza, e altre di durezza repressiva più enunciata che praticata. In ogni caso sono (quasi) sempre state le scelte emotive, e i calcoli elettorali dei partiti, a stabilire la prevalenza dell’una o dell’altra linea. Senza mai, peraltro, affrontare l’aspetto più immediato ed esplosivo della materia: come lo Stato deve trattare gli immigrati regolari, giunti in Italia con un permesso di soggiorno, e rinnovato a ogni scadenza, una volta che danno alla vita un figlio? Quel ragazzo è solo “il figlio del permesso di soggiorno” oppure ha qualche diritto civile in più?

Su questo punto è prosperata la rissa fra i partiti e gli strumentalismi della politica si sono fatti sentire, roboanti come un cannone a ogni vigilia elettorale. Da sinistra uno solo è stato il grido di battaglia: ius soli, cioè diritto di territorio o di patria. Un’equazione semplice: se un bambino nasce in Italia è perciò stesso italiano, a prescindere dallo status giuridico dei suoi genitori. È così in America, Canada e Stati Uniti, ma anche Messico, Brasile, Argentina. In Europa è molto più limitato questo principio. Ne esistono forme per così dire “temperate” in Belgio, Germania, Irlanda e Portogallo. La condizione posta da questi Paesi prevede l’acquisizione della cittadinanza alla nascita se i genitori, seppur stranieri, abbiano risieduto nel paese per un certo periodo di tempo. In Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna è prevista la cittadinanza alla nascita se almeno uno dei genitori è nato nel Paese in questione; la Grecia applica il principio del cosiddetto “doppio Ius soli temperato”. Si richiede, oltre alla nascita di almeno uno dei due genitori nel Paese, anche la residenza permanente.

Come si vede, soluzioni diverse nei diversi Paesi, ma tutte accomunate dalla consapevolezza che i problemi non si risolvono girando la testa dall’altra parte. In Italia, il tema ha conosciuto molte più resistenze nelle forze politiche per la ragione che il tasso di demagogia da noi è sempre stato, storicamente e statisticamente, più elevato che altrove.

La proposta dello ius scholae a cui Forza Italia intende lavorare, sempre che la Lega non alzi il livello dello scontro fino a minacciare la stabilità del governo, è un timido passo nella direzione giusta. Riconoscere la cittadinanza italiana e i diritti a essa collegati una volta compiuti due cicli di studio segna un punto a favore del buon senso. Ma non risolve la questione, come appare ovvio. Quanto all’inevitabile punto d’arrivo, cioè lo ius soli, esso sarà raggiunto a condizione che governo e partiti (e non conta il colore del governo) avranno saputo varare una politica migratoria condivisa e stabile, cioè non più condizionata dalla mutevolezza delle maggioranze o dalle esigenze elettorali. Si tratta di condividere, per la sinistra, controlli più restrittivi all’ingresso e, per la destra, di allargare le maglie dell’accoglienza per coloro che ne hanno diritto. L’aspetto più difficile è sottrarre la materia alle manipolazioni e agli strumentalismi della politica. Quando sarà rimasto il solo Vannacci a scrivere dotti saggi sui gradi cromatici dell’epidermide o sulla rugosità del palmo di Paola Egonu, allora l’Italia avrà davvero trovato una politica d’immigrazione all’altezza della questione.

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