Inchiesta Covid, la ricostruzione di quei giorni terribili

Massimo Colonna
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Quando Fontana annunciò di andare in autoisolamento perché una sua stretta collaboratrice era risultata positiva, la sinistra lo accusò di allarmismo. Nel frattempo il segretario Pd Zingaretti scelse proprio la regione più colpita dal virus per concedersi un aperitivo sui Navigli, restando contagiato

A tre anni di distanza dall’inizio della pandemia che, tra febbraio e aprile 2020, colpì la provincia di Bergamo provocando oltre 6 mila morti in più rispetto alla media dell’anno precedente, l’inchiesta per epidemia colposa ha raggiunto il primo step, con 19 indagati tra cui l’ex premier Conte, l’ex ministro della Salute Speranza, il Governatore della Lombardia Fontana e l’ex assessore della sanità lombarda Gallera. Il garantismo è sempre la cifra a cui è giusto attenersi, e in questo caso lo è anche di più, perché in quelle settimane terribili, con il dilagare di un virus sconosciuto, furono commessi errori forse inevitabili a tutti i livelli.

L’inchiesta e le eventuali responsabilità

Saranno i giudici e l’annunciata commissione parlamentare a fare piena luce su cosa non funzionò, ma intanto è utile ricostruire esattamente i fatti, e ricordare che già nei primi giorni della pandemia la Regione Lombardia aveva chiesto al governo di poter istituire autonomamente le zone rosse, ma la risposta fu che si potevano prendere misure solo parziali e provvisorie, senza bloccare le attività produttive, perché le decisioni fondamentali erano solo prerogativa del premier attraverso i Dpcm. Quando Fontana si mostrò in diretta Facebook con una mascherina, annunciando che si sarebbe posto in autoisolamento perché una sua stretta collaboratrice era risultata positiva, contro di lui la sinistra si scatenò accusando il governatore di alimentare un inutile allarmismo e di gettare discredito sull’Italia. Nel frattempo il segretario del Pd Zingaretti scelse proprio la regione più colpita dal virus per concedersi un aperitivo sui Navigli, restando contagiato, e per non essere da meno del suo segretario alti dirigenti del Pd andavano in giro ad abbracciare i cinesi per non discriminarli. Se ci fu una sottovalutazione della pandemia, insomma, la prima responsabile fu proprio la sinistra al governo, e non la giunta lombarda.

La prova regina: la zona rossa

La prova regina, in questo senso, è il ritardo con cui fu istituita la zona rossa nella Bergamasca: il Cts già il 3 marzo, infatti, aveva chiesto di estendere ai comuni di Alzano e Nembro, in Valseriana, le rigide misure di sicurezza già in vigore in altre zone della Lombardia, ma quell’istanza non fu accolta dal governo, nonostante una preventiva mobilitazione dell’esercito poi inspiegabilmente rientrata. L’allora premier Conte, ascoltato come testimone dai magistrati di Bergamo, dichiarò che il documento del Cts era arrivato sul suo tavolo solo il 5 marzo, un giallo su cui sarà opportuno fare piena luce, perché una tempestiva zona rossa per arginare i focolai di Alzano e Nembro avrebbe probabilmente salvato molte vite. Così come è un fatto che il governo perse ben cinque giorni per giungere alla decisione di chiudere tutta la Lombardia e altre undici province di Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna, poi salite a 14, e che più di trentamila persone furono fatte improvvidamente partire da Milano verso il sud. Per non parlare del lockdown nazionale proclamato contro il parere del Comitato tecnico scientifico. Senza dimenticare l’altro ritardo imperdonabile sulla mancanza dei dispositivi di protezione, a partire dalle mascherine che scarseggiavano anche negli ospedali mentre il governo Conte le regalava alla Cina. Tutto questo mentre il premier assicurava in tv che l’Italia sul fronte del Covid era “il Paese più sicuro d’Europa”. Questa è solo la cronistoria di quelle giornate convulse, che non vuol anticipare sentenze, perché gestire una pandemia è stata una prova improba per tutti.

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