Guerra e politica: la geoenergia del carbone sconfessa l’embargo europeo

Davide Urso
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Nel 2021 la rendita fossile da esportazioni per la Russia è stata di oltre 255 miliardi di dollari, di cui circa 110 dal petrolio, circa 70 dai prodotti petroliferi, 57,5 dal gas naturale e 17,5 dal carbone. Pertanto, il carbone ha pesato per meno del 7% sul totale

L’embargo UE sul carbone russo, dopo la scoperta del massacro di Bucha, è stato celebrato come rinascita della Comunità Europea e della capacità di sacrificare interessi di singoli Stati membri per salvaguardare i pilastri del bene comune comunitario. La geoenergia del carbone rovescia questa impostazione approssimativa di psicologia comunitaria applicata ad una fonte di energia.

Nel 2021, la rendita fossile da esportazioni per la Russia è stata di oltre 255 miliardi di dollari, di cui circa 110 miliardi dal petrolio, circa 70 miliardi dai prodotti petroliferi, 57,5 miliardi dal gas naturale e 17,5 miliardi dal carbone. Pertanto, il carbone ha pesato per meno del 7% sulla rendita fossile totale.

Portare poi a giustificazione che l’Europa è il primo importatore di carbone russo oppure che importa il 55% del proprio carbone dalla Russia, è solo un mero esercizio numerico poco sostenibile lungo la filiera del fonte carbone. Infatti, sia gli Stati membri UE non avrebbero alcuna difficoltà a importare carbone da altri Stati a prezzi più o meno identici (sfalsati semmai non dalla fonte quanto dai costi di logistica), sia Mosca non ne avrebbe a venderlo altrove, principalmente in Asia per una questione di rotte di approvvigionamento.

Infine, il processo di uscita progressiva dell’Europa dal carbone era già stato approvato, programmato ed iniziato. Nel 2020, la produzione di carbone è stata di 56 milioni di tonnellate, l’80% in meno rispetto ai livelli del 1990. Il numero di Stati membri che lo producono è passato da 13 a 6 e a breve a soli 2: Polonia e Repubblica Ceca (in attesa di conferme dalla Germania). Il consumo di carbone è diminuito in modo lineare negli ultimi 30 anni, con un picco di calo nel 2019 dettato dalle agende ecologico-ambientali globali e comunitaria. Sempre nel 2020, il consumo di carbone in UE è stato di 144 milioni di tonnellate, il 63% in meno rispetto al 1990.

I dati più aggiornati

Nello specifico, nel 2015 l’UE aveva in esercizio circa 280 impianti di produzione a carbone, di cui oltre la metà di prima e seconda generazione, quindi maggiormente inquinanti. Dal 2016 ad oggi, 172 impianti sono stati chiusi o hanno annunciato la chiusura, 18 andranno in showdown entro il 2030, 2 dei 23 progetti approvati sono stati cancellati ed altri sono a forte rischio. Il processo per arrivare ad una coal-free Europe entro il 2030 è consolidato e in linea con l’Accordo ONU di Parigi e l’intesa tra i Paesi OCSE.

In conclusione, in termini di quantità, di rendita fossile, e di sicurezza delle rotte di approvvigionamento, l’embargo UE sul carbone russo è del tutto irrisorio. Anche in termini di impatto socio-economico-industriale, l’assenza di carbone russo, a differenza del gas naturale, non produrrà ne’ perdita di posti di lavoro, ne’ calo del Pil, ne’ rischi di recessione tecnica.

A gennaio 2022, un mese prima dell’inizio del conflitto in Ucraina, la situazione europea (inclusi Balcani occidentali, Turchia e UK) relativa al phase out dal carbone era molto chiara: 10 Stati senza mai carbone nel mix energetico, 4 Stati coal free dall’accordo di Parigi, 12 Stati con una programmazione di uscita dal carbone entro il 2030 (tra cui l’Italia al 2025), 7 Stati coal free dopo il 2030 (tra cui la Germania al 2038 con un’accelerazione possibile vicino al 2030), solo 5 Stati (Bosnia, Kosovo, Serbia, Turchia e Polonia) senza una politica concreta di phase out.

L’effetto del conflitto ucraino è stato quello di generare un “effetto bifronte”. A livello statuale, ha rilanciato l’importanza del carbone come fonte “tappa buco” nell’immediato periodo per calmierare gli effetti potenzialmente devastanti della crisi energetica per i singoli sistemi-Paese. A livello comunitario, ha permesso, con lo strumento dell’irrisoria sanzione, di accelerare le politiche di phase out nel medio periodo dei due principali Stati carboniferi UE: Polonia e Germania.

Beninteso, saranno due processi diversi. Il primo (“tappa buco”) si implementerà lungo la filiera dell’impiantistica esistente, con l’aggiunta di piccoli ammodernamenti infrastrutturali e pochi nuovi progetti. Pertanto, l’embargo UE al carbone russo non fermerà questo processo. Semmai sposterà di qualche anno in avanti l’esecuzione della programmazione di uscita dal carbone. Il secondo (“profilo comunitario”) riguarda, come detto, Germania e Polonia.

La Germania, vista la coalizione semaforo, ha colto l’occasione per annunciare investimenti massicci sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica portando l’asticella politica del phase out dal carbone “idealmente” intorno al 2030. Beninteso, la realtà potrebbe mettere in seria difficoltà scelte politiche prese sull’onda emotiva e non sistemica. Ricordiamo che il carbone, nel periodo luglio-settembre 2021, ha pesato per il 31,9% del mix elettrico tedesco, pari ad un incremento del 26,4% rispetto allo stesso periodo del 2020. Senza energia nucleare, visto che le ultime tre centrali nucleari (5,3GWe) tedesche in funzione dovrebbero essere spente entro la fine del 2022, il Piano energetico di Berlino si poneva l’obiettivo di generare l’80% dell’elettricità da fonti rinnovabili entro il 2030 (ovvero quasi il raddoppio della produzione in meno di un decennio) e la chiusura di tutte (o quasi) le miniere di carbone entro il 2038. Si trattava di un Piano già molto ambizioso davanti alle tensioni geopolitiche, al calo degli investimenti infrastrutturali e in R&S, e al cambio progressivo che la transizione green sta imponendo nel rapporto tra domanda e offerta. È molto importante chiarire che mentre la domanda di energia resta per ora simile o superiore, l’offerta per soddisfarla sta mutando e avrà bisogno di tempi necessariamente di medio-lungo periodo. Non dovremmo quindi meravigliarci se, a tutela della propria sicurezza nazionale, la Germania dovesse scegliere l’opzione “tappa buco” mantenendo operativa la capacità installata di centrali a carbone (circa 45GW), mettendo in stand by le centrali ora spente e creando una riserva strategica nazionale di carbone per permettere alle centrali di funzionare nelle prime settimane invernali senza ricevere nuove forniture in attesa di capire se e come sostituire la produzione con nuova fonte oppure importare carbone in minore quantità progressiva da rotte geopoliticamente accettabili. La Germania potrebbe rimpiazzare in pochi mesi le specifiche tecniche del carbone russo con forniture da Stati Uniti, Colombia, Sudafrica, Australia, Mozambico e Indonesia.

Berlino potrebbe così prendere tre piccioni con una fava: tutelare la sicurezza energetica nazionale rispettando i vincoli comunitari e tenendo l’asticella del phase out al 2030 (oltre 8 anni da oggi), impostare una politica anti-gas russo, aumentare il piano di investimenti lungo la transizione green. La Polonia rappresenta l’anello debole. Varsavia dipendeva dal carbone russo per l‘87% del suo fabbisogno. Il tessuto produttivo, industriale e di progetto vedeva il carbone come parte strategica.

Questo perché l’industria carboniera polacca, anche se il valore degli asset ha perso circa il 50% negli ultimi cinque anni, versa quasi 14 miliardi di euro nelle casse pubbliche e la Polonia ha progetti di messa in linea di nuove centrali a carbone e di apertura di nuove miniere di lignite. Il Governo polacco intende ristrutturare il settore energetico con uno spin-off di attività carbonifere mantenendo la società statale di estrazione di carbone, PGG, funzionante fino ad almeno il 2049 utilizzando aiuti di Stato. Detto che sarà la Commissione europea a determinare se ciò è in linea con le norme UE in materia di aiuti di Stato e concorrenza, è fondamentale capire quali saranno gli incentivi necessari per far accelerare l’uscita della Polonia dal carbone.

La posizione dell’Italia

L’Italia? Il Governo italiano, nell‘ottobre 2017, ha annunciato l‘uscita graduale dal carbone entro il 2025 nell’ambito della nuova Strategia energetica nazionale (Sen) e il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec). Sen e Pniec non sono vincolanti e occorrono decreti e misure attuative per la loro realizzazione. Anche a fronte di molteplici conferme ufficiali, almeno le ultime sette centrali a carbone presenti nel nostro Paese potrebbero essere usate per colmare le carenze di approvvigionamento nell’immediato. Si tratta di 5 centrali termoelettriche gestite dall’Enel, di cui una con capacità di 682 MW è stata chiusa a dicembre 2021, 1 centrale gestita da EP Produzione del Gruppo Eph, 1 centrale gestita da A2a. L’Italia si trova in una posizione fonte-impianti-ambiente molto privilegiata. In termini ambientali, l’Italia è uno Stato virtuoso in UE. A differenza della Germania che continua a mancare gli obiettivi di decarbonizzazione e calo di emissioni GHG ogni anno e che essa stessa si è data. Gli impianti a carbone italiani coprono circa il 4% del fabbisogno energetico nazionale, con un import poco superiore alle 7 milioni di tonnellate e da molti Stati fornitori, principalmente Russia, USA, Colombia e Australia. Quindi la supply chain italiana è al sicuro.

Nulla di male quindi a sfruttare le centrali a carbone italiane per il tempo necessario a tutelare le esigenze di baseload sistemico. L’Italia rimarrà sempre uno Stato ambientalmente virtuoso.

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