Nato con l’obiettivo di intercettare l’antipolitica, il Movimento Cinque Stelle ha tradito le aspettative. Ma i partiti tradizionali farebbero bene a studiarne l’evoluzione, per comprendere pregi (pochi) e difetti (tanti) di chi voleva aprire il Parlamento “come una scatoletta di tonno”
La simpatia che aleggiava sul Movimento nel 2018, è ora tramontata. L’assunto è certificato dalla comparazione fra i risultati straordinari – superiori al 32% – conseguiti dal partito nelle ultime elezioni politiche, e i dati che oggi offrono i sondaggi – siamo al 12% scarso -. A suggellare, in soli quattro anni, una riduzione dei precedenti consensi di ben due terzi. Quali le ragioni di tale debacle? Nel tentativo volto a spiegare il fenomeno si utilizzeranno canoni di valutazione oggettivi, tenendo nell’un tempo ben a mente la massima di esperienza per la quale, in genere, ogni successo, al pari di ogni insuccesso, risulta frutto delle scelte e dell’operare che lo hanno determinato. Discende da questo incipit che negare valenza agli strepitosi risultati elettorali del 2018, significa attribuire un torto alla storia.
Procediamo però con ordine. Non può negarsi che il movimento, nella sua fase genetica o primordiale, ed in modo assolutamente meritorio, aveva avuto la capacità di intercettare a meraviglia il sentire della gente. Così, di fatti, la diffusa allergia al politico di professione, aveva suggerito di imporre la impossibilità del triplice mandato parlamentare, abbinata alla esigenza di ridurre i membri della Camera e del Senato; la sensibilità di accorrere ai bisognosi aveva legittimato l’adozione del tanto discusso reddito di cittadinanza (una riedizione delle pensioni di invalidità concesse dalla Democrazia Cristiana pure a soggetti che godevano di salute invidiabile); l’avversione al potere per il potere, aveva permesso di recuperare l’esaltazione populista del giustizialismo, inteso come strumento di lotta contro l’impunità – vera o presunta – della classe dirigente e dei colletti bianchi (in tale guisa riesumando la pessima esperienza di Tangentopoli); la volontà di rendere partecipi delle scelte del partito gli adepti, veniva tradotta con la invenzione della piattaforma Rousseau; l’evoluzione tecnologica – testimoniata dai social – era stata recepita dagli improvvisati quadri dirigenti, con maggiore prontezza rispetto a quella che avevano palesato le residue formazioni politiche.
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Insieme di elementi, questi, che ben possono disvelare il perché dell’affermazione elettorale, tendenzialmente plebiscitaria, ottenuta dal movimento nel corso dell’ultima consultazione politica. Essendo stati intesi dai più quali indici rivelatori dell’essere e del funzionamento di un partito di nuova generazione. Tendenzialmente rivolto al popolo di sinistra, che non si riconosceva più nel Partito Democratico; ma in qualche modo proteso a pescare a tutto tondo nel corpo elettorale, per la diffusa insofferenza che quest’ultimo avvertiva nei confronti delle vecchie strutture partitiche. Certo è però che per perfezionare la disamina, in parallelo, è parimenti dovuto sottolineare che da subito, sarebbero affiorate critiche severe sulla formazione politica alternativa alle tradizionali: secondo quel che emergeva dagli scritti di molti opinionisti, oltre che, ovviamente, dalle idee propugnate dai rappresentanti della preesistente classe politica.
Gran parte di esse erano rivolte a Beppe Grillo, comico divenuto politico che dirigeva e che sponsorizzava il Movimento, da suo vero e proprio padrone: tanto da poter assumere di lì a non molto – e per autoproclamazione – l’assurdo ruolo di garante del movimento medesimo (sic!). Sacramentalizzando in tale guisa la propria figura del deus ex machina, del dioscuro da venerare, all’interno della nuova formazione: in imbarazzante antitesi con la ispirazione a democrazia diretta e diffusa che aveva identificato un caposaldo della nuova formazione, e che si era materializzata con la attribuzione ad ogni iscritto del diritto di concorrere – con le votazioni espresse mediante la piattaforma Rousseau – alle scelte del partito. (Censura ovvia, ora esteriorizzata con fermezza dal pur discutibile Di Battista). Fermo inoltre rimanendo che quel comico/garante, a discapito della coerenza, avrebbe fulmineamente abiurato i fondamentali del giustizialismo, non appena colpito da una spiacevole vicenda familiare…
A ben vedere, a queste critiche, in breve, se ne sarebbero altre, egualmente consistenti, considerato che la formazione politica di nuovo conio: a) non avrebbe risolto la propria contraddizione ontologica: dell’essere cioè un movimento in attesa di evolversi a partito, oppure di essere già un partito, connotato da peculiarità sui generis, difformi da quelle che da sempre hanno caratterizzato i partiti tradizionali; b) sarebbe stato rappresentato da eletti in Parlamento, o in enti territoriali pubblici, per lo più privi di spessore. Anche minimo.
Iconoclastiche a questo riguardo alcune figure. Di Maio, che ha incarnato e che incarna un personaggio di mezzo, tra il felliniano ed il darwiniano: felliniano, perché si pone a cavallo tra la sua primigenia storia, vissuta da “bibitaro” sugli spalti dello stadio Fuorigrotta, e quella più recente, fiabesca, che lo insedia a capo del Ministero degli Esteri, scrivono, con poche cognizioni della lingua inglese; e pure darwiniano, perché dopo avere preso parte (l’altro ieri) alle manifestazioni dei gilet gialli in terra di Francia, dopo avere vituperato contro la Europa, e dopo essere stato il portavoce onnipresente dei 5 Stelle, illuminato sulla via di Damasco, avrebbe finito con lo scoprire in se stesso la vocazione al credo europeista ed atlantista, di per se’ dirimente per gettarlo al collo dell’enfant prodige della politica italiana: Tabacci.
Bonafede, già dj, catapultato a capo del Ministero di Grazia e Giustizia, dal cui pulpito ha predicato in perfetta assonanza con le idee propugnate da noti esponenti della magistratura. Più noti per i propri convincimenti oltranzisti che professano e per i quali gli unici errori dei giudici si rinvengono nelle assoluzioni (o in talune assoluzioni). Dovendosi ritenere un assolto un colpevole fortunato. Patuanelli, per arricchire la carrellata esemplificativa, che nella question time affrontata nella seduta del 12 novembre 2020, o in data prossima, quale Ministro dello Sviluppo Economico, disquisendo del decreto ristori, non ha ricordato il nome del testo normativo sul quale doveva fornire chiarimenti. Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo, per concludere, che sconosciuto o poco conosciuto accademico, prestato alla politica, da premier, nell’epoca Covid, ha iper impiegato i Dpcm, fonte normativa per nulla democratica, degna – prima di allora – di isolati cenni teorici in dottrina; che poi nell’esercizio del munus publicum, ottimizzando il terrore della pandemia, ha rinunciato – complice Speranza – ad assicurare alle persone una informazione corretta e compiuta ( chi può ancora oggi spiegare come siano stati conteggiati i morti da Covid o con Covid, ed il perché mai non siano state divulgate terapie da assecondare o da render alternative al vaccino); che è ricorso a mezzi invasivi, lesivi della privacy – il green pass -, del quale non si scorgeva il bisogno, ne’ si scorge al momento la sopravvivenza del bisogno; che nella conduzione della politica estera, d’accordo il garante, si è incondivisibilmente appiattito sulla via privilegiata della seta.
A questo cocktail di elementi negativi, deve esserne aggiunto uno ulteriore: in linea con le indicazioni del Movimento, l’essere stato premier di due governi inconciliabili, susseguitisi senza soluzione di continuità nel corso della identica legislatura. Anomalia resa possibile dalla opzione formalistica adottata e dietro la quale si è schermato il Presidente della Repubblica (nella democrazia parlamentare, le camere non possono essere sciolte quando comunque esprimono una maggioranza. Idonea a sorreggere un governo… A prescindere dalla logica e dal buon senso). Ma forse resa più possibile per assicurare agli eletti dei 5 Stelle nelle due Camere il riconoscimento pensionistico. Insinuazione che conferma la abiura dei principi di democrazia trasparente sulla cui rivendicazione era invece nata la formazione politica improvvisata. Abiura convalidata, va ripetuto, vuoi dalla assurda signoria del padre padrone del movimento sul Movimento, vuoi, e anche in queste ore, dalle modalità di formazione delle liste. In eccepita violazione delle norme statutarie.
Non basta, però, perché non possono essere sottaciute le scelte incredibili dei banchi a rotelle e/o dei monopattini, che vanno oltre l’incredibile e che pure vanno annoverate tra le perle dei governi Conte. Vero è però, che, rientrando nella trattazione di una tematica solo appena accennata, la irreversibile debacle dei 5 Stelle risiede massimamente nel non avere risolto la contraddizione ontologica che ne rammostra l’essenza. La formazione in commento – deve esser ripetuto – configura un movimento o un partito? Come partito ha dimostrato delle crepe. Evidenti. Se deve essere l’alternativa di novità ai Dem, a tacere dal resto, ed a prescindere da quel che è stato scritto, a titolo esemplificativo, rimane da capire perché con i Dem si dovrebbe coalizzare, quando li avrebbe dovuti avversare – e la risalita nei sondaggi odierni avvalora la tesi – ; in che modo, copiandoli, possa insistere sulla esigenza di applicare schemi giustizialisti nella competizione politica, laddove un nuovo movimento progressista dovrebbe reimporre – in ottica di sana prospettica, gestione governativa – la valenza dei criteri garantisti. Per anni di esclusiva lucida pertinenza delle ali nobili della sinistra italiana, liberale e meno liberale. Dunque, non rincorrere né scorciatoie – la via giudiziaria per conquistare il potere, effetto sortito a favore dei Dem dalla esperienza di Mani pulite – ne’ uomini che hanno tratto dall’impiego in magistratura notorietà, la successiva innaturale capitalizzazione in candidature parlamentari o in cariche parlamentari. Dovrebbe correggere le iniziative encomiabili nella teoria, ma travolte nella loro realizzazione pratica – vedi, di nuovo a mo’ di esempio, il reddito di cittadinanza e vedi il super bonus in edilizia -; dovrebbe abbattere il regime politico nelle Usl, dovrebbe rinnovare la P.A., rivisitare il sistema fiscale, farsi insomma latrice di programmi e modalità di amministrazione e di conduzione del partito in forma antitetica rispetto a quella propria dei partiti tradizionali, Dem primo fra gli altri. Anche questo lo renderebbe un nuovo partito di sinistra. O meglio, progressista. Senza rabbia di casta. Anche questo gli consentirebbe di attrarre il buono della società civile, attraendo, come nella prima ora, consensi pure dislocati in meandri inaspettati del corpo elettorale. Salva pur tuttavia la precisazione per la quale, allo stato, non è pronto per tale rivoluzione, che pure aveva sentito di dover proporre. Per l’insieme di tali motivi, verosimilmente, nel caso in cui Casaleggio senior fosse sopravvissuto, sarebbe sopravvissuto persino il movimento dei 5 Stelle, che tale sarebbe rimasto, nel rispetto cosciente della realtà attuale che sostanzia.
Magari con fisiologiche velleità future, di forza politica governativa, eretica, giovane, ricca di ideali. E perché no, domani, di uomini all’altezza di rappresentarla. Al perfetto contrario di oggi. Ciononostante deve essere lealmente riconosciuto che questa formazione ha dato vita ad un fenomeno, che deve essere studiato, per certi versi emulato, ma non dileggiato. Poiché, volgendo lo sguardo ai competitor, se Atene piange, Sparta (di sicuro) non ride.
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