“Non ci fermeremo finché non saranno tornati tutti“, questo il grido dei manifestanti israeliani che ieri si sono riversati nelle strade di Gerusalemme per marciare e gridare che dopo 15 mesi di guerra, interrotta solo da una breve tregua il novembre scorso, è arrivato il momento di riportare a casa tutti gli ostaggi. Oggi il giorno tanto atteso è finalmente arrivato. La liberazione delle tre donne, detenute a Gaza dall’inizio del conflitto, sembra un canto di speranza, un segno che forse la fine della guerra è realmente vicina.
Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher sono i primi ostaggi di Hamas che sono stati consegnati alla Croce Rossa nel primo giorno della tregua. I primi volti del cessate il fuoco, che fanno rivivere la speranza e che portano con loro il racconto di 15 mesi di prigionia e di tensioni. Gonen ha 23 anni ed è stata rapita il 7 ottobre 2023, quando cercava di sfuggire insieme alle sue amiche dall’assalto di Hamas al festival Supernova.
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La sua storia è stata raccontata da sua madre che, in quella terribile mattina, è rimasta al telefono con lei fino al momento del rapimento. Emily Damari ha 27 anni e, sempre il 7 ottobre 2023, è stata rapita nel corso dell’assalto al kibbutz di Kfar Aza, dove 11 persone furono uccise e sette vennero prese in ostaggio.
L’ultima donna liberata, Doron Steinbrecher, ha 31 anni e viene dallo stesso kibbutz di Emily Damari, da cui è stata rapita nel giorno rimasto nella storia come l’inizio del conflitto israelo-palestinese. Prima di essere rapita, è rimasta per 21 ore chiusa nella safe room del suo appartamento, insieme ai suoi bambini, di soli 3 e 6 anni. Un messaggio vocale inviato ai suoi amici ha confermato il suo rapimento: “Sono arrivati, mi hanno presa“.
Tre storie diverse unite dallo stesso destino, quello di essere divenute i volti di una liberazione che sembrava potesse non arrivare mai. Dopo mesi di incertezze, in cui ormai non era neanche più certa la loro sopravvivenza, Emily, Romy e Doron stanno facendo ritorno a casa, portando con loro tutto il dolore e la devastazione che 15 mesi di prigionia nei tunnel di Hamas comporta. Le tre donne hanno attraversato il confine e dopo 471 giorni di prigionia sono tornate in Israele, pronte ad abbracciare i loro cari. “Il governo di Israele accoglie con affetto le tre donne liberate“, ha dichiarato soddisfatto il premier Netanyahu.
Le incertezze sulle liberazioni
Il rilascio delle tre israeliane è rimasto incerto fino all’ultimo. Nella tarda serata di ieri, l’emittente saudita Al-Hadath ha dichiarato che Hamas avrebbe consegnato “nel giro di qualche ora” l’elenco con i nomi degli ostaggi. L’ennesimo ritardo, l’ennesima sfida allo Stato ebraico, che ovviamente ha mandato su tutte le furie il primo ministro Benjamin Netanyahu.
“Senza la lista degli ostaggi che saranno liberati da Hamas, Israele non darà il via allo scambio con detenuti palestinesi previsto dall’accordo“, ha infatti ribadito il leader israeliano, annunciando nuovamente che nessuna violazione dei termini dell’accordo sarà tollerata. Nonostante i moniti e l’arrivo dell’elenco a meno di 10 ore dalla liberazione delle tre donne, la tregua ha avuto inizio, anche se con tre ore di ritardo.
Intanto, a Israele e in Palestina si continua a festeggiare il primo giorno di cessate il fuoco. La fine delle bombe, l’inizio di una nuova vita, che non potrà però mai lasciarsi alle spalle le atrocità vissute dal quel 7 ottobre 2023. Due date storiche queste, che rimarranno scolpite nel lungo flusso della storia contemporanea e che plasmeranno inevitabilmente il futuro del Medio Oriente e dell’umanità intera. Ad adombrare l’immensa felicità di oggi, come sempre, il timore che Israele possa in ogni momento tirarsi indietro dall’accordo e ricominciare un conflitto che ha invaso le strade della Striscia di Gaza col sangue di 46.913 palestinesi morti, di cui le ultime 25 morte nelle ultime 24 ore.
Immagini che vengono solo in parte coperte dalla gioia del ritorno delle tre donne ostaggio di Hamas e che ricordano come la guerra, in ogni parte del mondo e guidata da qualunque motivazione, sia sempre la sconfitta dell’umanità intera. E mentre le Forze di difesa israeliane (Idf) iniziano a riorganizzarsi, i primi camion di aiuti umanitari si dirigono verso Gaza, attraverso il valico di Rafah, per portare sollievo ad una popolazione stremata, che attende solo di poter tornare a guardare la luce del sole senza paura e senza dover fuggire dalle ombre dei droni e dei missili israeliani.
La tregua a Gaza appesa a un filo
Lasciando da parte le esultanze per la tregua che ha avuto inizio poche ore fa, è necessario affrontare il nuovo capitolo del conflitto israelo-palestinese con un certo realismo. Benjamin Netanyahu, nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri sera, ha mandato l’ennesimo monito ad Hamas e forse anche una rassicurazione ai leader dei partiti di ultradestra che sono parte del suo esecutivo: “Ho parlato con il nuovo presidente Usa mercoledì sera, lui ha giustamente sottolineato che la prima fase dell’accordo è un cessate il fuoco temporaneo“.
Con queste poche e semplici parole, il primo ministro israeliano riapre quindi tutti gli scenari possibili sul proseguimento della guerra. Non si tratta più di attendere solamente il passo falso di Hamas, ma di riconoscere la tregua attuale per ciò che realmente è. Soltanto una pausa. Così, il monito che Bibi ha lanciato solo qualche giorno fa, sulla possibile ripresa del conflitto con attacchi ancora più duri di quelli messi in atto finora, sembra ora una promessa. Allo stesso modo, il nuovo quadro porta alla luce la fragilità di un piano accettato in fretta e furia per accontentare il presidente eletto degli Usa, Donald Trump, che ha preteso un cessate il fuoco in Palestina prima del suo insediamento ufficiale.
Il miliardario, dalla sua dimora negli Stati Uniti, ribadisce che la sua amministrazione sarà in grado di mantenere in atto il cessate il fuoco semplicemente attraverso un “buon governo“. Ciò che però sembra non prendere in considerazione sono gli interessi e le volontà dell’esecutivo di Gerusalemme. Nella Knesset, il Parlamento monocamerale di Israele, continuano infatti ad innalzarsi grida di scontento, guidate in particolare da due personalità particolarmente controverse.
Si tratta di Itamar Ben Gvir, ministro della Pubblica sicurezza e leader del partito di ultradestra Potere ebraico, strenuo sostenitore dell’occupazione di Israele e del proseguo del conflitto fino alla distruzione totale di Hamas. Si aggiunge poi Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze di Israele e leader dell’altro partito di ultradestra, Sionismo religioso, che ha più volte additato la tregua come una delle più grandi “catastrofi” che potrebbe colpire lo Stato ebraico. Entrambi, insieme ad altri sei membri del governo, hanno votato contro la sigla dell’accordo sia durante le riunione di gabinetto sia durante quella governativa.
Nonostante i loro voti contrari, la tregua è stata approvata eppure l’esecutivo di Netanyahu inizia a tremare. I partiti dei due leader contano ben 13 seggi nella maggioranza del premier, su un totale di 120 e 67 di maggioranza, per cui risultano indispensabili per la tenuta dell’esecutivo attuale. Al momento, solo Ben Gvir ha annunciato le sue dimissioni, seguito da due membri del suo partito.
Così, Netanyahu sembra pronto a mitigare le sue posizioni, pur rischiando di inimicarsi l’alleato di sempre che ora veste i panni di Trump. A sostenerlo, però, anche nel caso in cui Sionismo religioso e Potere ebraico dovessero lasciare il governo, c’è il suo predecessore, Yair Lapid, a capo del partito di opposizione Yesh Atid, che conta ben 23 seggi nella Knesset.
“Non serve avere paura o essere intimiditi, otterrete ogni rete di sicurezza di cui avete bisogno per concludere l’accordo sugli ostaggi“, ha infatti sostenuto Lapid, sottolineando che se Netanyahu fosse disposto “potremmo decidere i dettagli di quella rete di sicurezza in mezz’ora“. Un’offerta su cui per il momento non ci sono certezze, così come non ci sono certezze sul proseguo della tregua. In Medio Oriente è tutto appeso ad un filo ma, stavolta, anche il destino di Netanyahu sembra in bilico insieme a quello di tutti gli altri.
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