Il fantasma che si aggira per l’Italia non è il comunismo, come profetizzava Karl Marx in apertura del “Manifesto” del 1848. È un fantasma più familiare e meno minaccioso, esso viene dalle viscere della storia repubblicana e nella fantasia di qualche osservatore assume di volta in volta le forme più bizzarre. Può essere quella di una Balena Bianca, come veniva chiamata la Dc. Può assumere la forma di un Edera sul tricolore, come fu per l’alleanza fra liberali e repubblicani alle europee del 1979. Per chi ha i piedi ben piantati sul presente o non ha memoria di ciò che era il “centro” politico, quel fantasma assume le fattezze di Carlo Calenda.
Il suo volto pacioso sormontato da uno sguardo quasi sempre accigliato è l’ultima incarnazione, e l’unica al momento disponibile, di ciò che è o potrebbe essere il centro. Calenda ha scelto per sé la vita dura e stentata del salmone. A questo pesce, prelibato quando non è cresciuto in una vasca d’allevamento, la natura assegnato un compito davvero bestiale: deve risalire la corrente del fiume se vuole depositare le uova e avere degli eredi. In pratica deve remigare controcorrente, accettare fatiche incredibili e rischi mortali, come finire nelle fauci degli orsi golosi della loro carne.
Calenda naviga controcorrente nell’Italia bipolare. Ha scelto la parte più impegnativa e da quella tribunetta (dicono i sondaggi che Azione oscilla fra il 2,5 e il 3%) coltiva l’ambizione di mettere a soqquadro un assetto politico che a lui sembra artificiale e poco adeguato per rappresentare un Paese multiforme e complesso. Ha tentato l’impresa, nel 2022, con Matteo Renzi e gli elettori li hanno gratificati del 7,8%.
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Una buona base di partenza, si dissero. Peccato che nel giro di pochi mesi quella base è andata in frantumi, fra insulti e recriminazioni, non senza qualche lancio di piatti. Uno spettacolo immeritato da quegli oltre 2 milioni di elettori che si sono ritrovati orfani da un giorno all’altro. Renzi, maestro di vele come pochi, fiutato il vento è salito sulla barca traballante del campo largo, anche se Conte vorrebbe ributtarlo in mare.
La barca di Calenda è oggi poco più di una zattera, bene che vada un canotto di quelli gonfiabili e a rischio di affondare. E dal quale sono scesi in parecchi, preferendo a quella di Azione la barca, più piccola ma più solida, di Noi Moderati.
Gelmini, Carfagna, Versace sono stati accolti da Maurizio Lupi che a tutti può offrire un porto sicuro nel centrodestra. Enrico Costa, addirittura, è stato raccolto dalla nave di Forza Italia da cui era sceso con qualche fragore. Tutti in fuga da Calenda e da Azione perché tutti convinti che si stava finendo nelle fauci di Schlein e Conte.
Riassumiamo: Calenda ha scelto di sostenere i candidati del Pd in Liguria, Emilia Romagna e Umbria. Quei candidati sono sostenuti anche dal M5S anche se nessuno di essi è espressione dei Cinquestelle. Dunque, sul piano formale, il campo largo non esiste in nessuna delle tre Regioni. Sul piano pratico, è evidente che ogni chance di vittoria passa per l’unione di tutte le forze alternative al centrodestra.
È davvero convinto Calenda di poter rimanere fuori dagli schieramenti quando dalle elezioni locali o regionali si passa alle politiche? E come convincere gli elettori fino al punto da averne almeno il 4% per entrare in Parlamento? La vera scommessa di Calenda, una scommessa temeraria va riconosciuto, è persuadere gli elettori su questa scaletta: ho un programma e dei punti per me irrinunciabili sulla politica estera, pieno sostegno all’Ucraina; sulla transizione verde, da rimodulare in un arco di tempo più ampio; sulla politica fiscale e di bilancio. Quindi, soltanto dopo il voto e soltanto dopo un duro confronto programmatico con entrambi gli schieramenti, deciderò con chi allearmi.
Si tratta, inutile negarlo, di un ritorno alle procedure non solo della Prima Repubblica ma anche alle procedure grazie alle quali la Germania, dal 1948, ha sempre potuto esprimere governi stabili. Gli accordi sulla base dei programmi e non dell’appartenenza ideologica a uno degli schieramenti in campo sarebbero una rivoluzione nell’attuale quadro politico, ma una tale rivoluzione farebbe saltare il bipolarismo muscolare visto in questi 30 anni.
Inutile illudersi che Schlein o Meloni, Tajani o Conte possano accettare una simile soluzione. Far nascere i governi sulla base di accordi programmatici da stipulare dopo il voto vorrebbe dire emarginare gli estremismi di Salvini e Conte, di Fratoianni e Bonelli e riportare la dialettica politica nell’alveo rassicurante delle opzioni classiche fra conservstori e riformisti. Opzioni da validare sulla base di scelte concrete e non più sulla base di pregiudiziali ideologiche.
È in un quadro simile, e solo in questo quadro, il centro cesserebbe di essere un fantasma. Chi si incaricherà di un lavoro tanto impegnativo da sembrare proibitivo ovviamente non sogna di indossare mostrine e pennacchi o di prendere lo scettro del comando. Ci vuole un leader umile – anche se sembra un ossimoro l’umiltà affiancata all’esercizio della leadership – e Calenda non sembra avere questa caratteristica. E l’umiltà, lo ricordano i più anziani, era, insieme a una buona dose di ipocrisia e una spruzzata di cinismo, il tratto che consentì alla Dc di restare per 40 anni alla guida dell’Italia. Chissà che il tempo non aiuti Calenda a scoprire una dimensione più politica della sua scelta. Dire cose giuste, e Calenda le dice, è importante ma serve poco se poi quelle stesse cocosmo vengono filtrate attraverso la grammatica della politica.
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