Elly, una leader senza veti (e al momento senza bussola)

Accolta con freddezza se non ostilità, Schlein si è guadagnati i galloni sul campo. Ha rianimato un partito lasciato da Letta in stato comatoso e lo ha reso di nuovo competitivo. Ora si tratta per lei di esercitare la leadership non più solo nel partito ma nella coalizione. Non pone veti (e subito si è fatto avanti Renzi) ma neppure intende subirne (e l’avviso non è piaciuto a Conte). È tentata di votare Fitto commissario, dando così un dispiacere a M5S. Ha costruito alleanze ampie in Liguria, Umbria ed Emilia Romagna. La prova del fuoco però riguarda la politica estera e l’Ucraina: lì si decideranno le alleanze future.

Jean-François Paul de Gondi
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Non l’hanno vista arrivare, e Stefano Bonaccini ne sa qualcosa. Per lei, adesso, una volta arrivata, il problema è farsi sentire. Non tanto dentro il Pd, scosso da una novità “esterna” tanto imprevista quanto inattesa ma poi, a distanza di due anni, assimilata e integrata. Per Elly Schlein il problema è di far arrivare la voce fuori dal perimetro del partito, e farlo senza più evocare quel “campo largo” che le è costato molte ironie e scarse adesioni. La svolta, non si sa ancora quanto proficua, c’è stata il giorno in cui Schlein ha abbandonato il pallottoliere e ha posto la questione in termini politici e non più aritmetici. “Non poniamo veti, ma neppure siamo disposti a subirne”, ha sentenziato in una torrida giornata d’agosto.

L’affermazione ha destato quanti si erano assopiti alle litanie del campo largo. Il più lesto di tutti, il solito Matteo Renzi, ha impiegato pochi minuti per realizzare che quella porta socchiusa andava attraversata, e in tutta fretta, se voleva evitare di rimanere ingolfato nella ressa di chi vuole entrare. Gli altri, da Calenda a Conte a Fratoianni e Bonelli, preferiscono traccheggiare. Scrutare da lontano (Conte) o porre condizioni, invalicabili a Roma e aggirabili a Genova o a Perugia (Calenda). Si prenda Conte: mai con Renzi, impossibile per i Cinquestelle trovarsi in alleanza con lui. Certo, Conte ha la memoria di un elefante e allearsi con colui che lo disarcionò da palazzo Chigi con una manovra parlamentare da manuale non è affare di poco conto per chi vive da allora coltivando lo spirito di vendetta e con l’animo in lutto. Ma dopo l’assemblea costituente di metà ottobre, quando sarà incoronato padrone assoluto del M5s, Conte darà la stessa risposta a Schlein? Oppure, fiutata l’aria e senza più avversari interni, preparerà una curva molto ampia per andare dove oggi è costretto a negare di voler andar?

Schlein ha imparato molto bene a conoscere l’andirivieni tattico dei suoi potenziali alleati. Sa, per esempio, che in politica estera dovrebbe tirar fuori decine di conigli dal cilindro per avvicinare posizioni inavvicinabili, come quella putiniana di Conte e quelle atlantiste ed europeiste di Renzi e Calenda. Potrebbe essere agevolata in questo compito dalla linea via via opacizzata del governo italiano. Si prenda la questione sull’uso delle armi italiane sul territorio russo. Gli alleati europei, con qualche incertezza della Spagna, hanno tutti dato semaforo verde. L’Italia, con il ministro Tajani, ha detto no, non potete usare le nostre armi sul territorio russo. Zelenski, per Tajani, deve aspettare di vedere un missile russo sulla propria testa prima di poterlo abbattere, se fa in tempo. Il governo nel suo insieme tentenna, per non lasciare troppo spazio elettorale a Salvini, autentico portavoce del putinismo. Nessuno crede che sia stato un caso se proprio su questo punto ha preso la parola Paolo Gentiloni per esortare il governo Meloni ad allinearsi ai partner europei. Lo ha detto rivolto a Meloni perché anche Elly intenda.

 L’Ucraina, Gaza, il superamento del voto all’unanimità nel Consiglio europeo, sono davvero le colonne d’Ercole superate le quali Schlein potrà navigare in mare aperto e lasciare agli altri il piccolo cabotaggio. Sa di avere alle spalle un partito diviso sulle questioni della guerra e della pace. Gente come Lorenzo Guerini o Paolo Gentiloni hanno parlato con chiarezza, senza ambigue sfumature: via libera a Zelenski perché possa difendersi come meglio crede. Ma il cerchio emiliano che la supporta è contrario, come lo è Conte. Elly sa di non poter rinviare oltre il 5 novembre. Perché quel giorno, terminate le operazioni di voto, l’America avrà un nuovo presidente. Paradossalmente, con Trump alla Casa Bianca sarebbe più facile per il Pd sganciarsi dal treno degli “interventisti” europei. Con Kamala Harris tutto si complicherebbe per Schlein e Conte. È il paradosso che distingue la democrazia, consapevole di doversi difendere, e il populismo che affida al destino la sorte di un popolo.

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