Dopo il voto, Meloni tira dritto in sofferenza vanno le coalizioni

Giorgia Meloni sfodera il garbo istituzionale e si congratula con i nuovi governatori di centro-sinistra di Emilia Romagna e Umbria. De Pascale evoca “lo spirito repubblicano” di leale collaborazione con il governo. Meloni veleggia tranquilla nella legislatura. I risultati regionali trasmettono però qualche fibrillazione nei due schieramenti. La sconfitta secca di Salvini e il declino inarrestabile di Conte possono creare problemi alla maggioranza e al sempre nascente “campo largo”

Roberto Guerriero
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Signori, non si cambia! Qualche commentatore avventato ha voluto leggere nel voto regionale in Umbria ed Emilia Romagna un “avviso” non proprio amichevole al governo Meloni. Come succedeva negli anni Ottanta dell’altro secolo, una coalizione veniva sconfitta alle elezioni comunali di Abbiategrasso e, con aria pensosa, gli analisti si affrettavano a preconizzare la crisi di governo. Certo, l’Emilia Romagna non è Abbiategrasso. E quando il numero delle Regioni non è due ma quattro o cinque quelle in cui vincono i tuoi avversari, il governo può anche crollare (D’Alema, il 26 aprile 2000, si dimise dopo la bruciante sconfitta del Pd alle regionali “come atto di sensibilità politica e non certo per dovere istituzionale”).

Altri tempi, altri protagonisti e, soprattutto, altra proporzione della sconfitta e della vittoria di Berlusconi. Certo è che il voto nelle due Regioni “rosse”, anche se l’Umbria è stata governata dalla leghista Tesei negli ultimi cinque anni, ha confermato lo stato di buona salute del Pd. In Emilia Romagna la Schlein ha svettato su tutti gli altri partiti con oltre il 42% dei voti, un risultato “renziano” per lei. Tanti voti al Pd, tanti voti, nel centrodestra, a Forza Italia, ma tanti, troppi meno elettori rispetto a cinque anni fa. È il vero “buco nero” di ogni competizione elettorale, a qualsiasi livello. A conferma della fragile salute in cui versa il rapporto fra i cittadini e la rappresentanza politica. Si recano alle urne e votano quanti si riconoscono e vivono nella tribù di appartenenza, e danno quel minimo di ossigeno a partiti ridotti ormai a comitati elettorali ma disancorati ormai dalle dinamiche sociali e, in definitiva, dalla realtà quotidiana.

C’è uno stridore intollerabile fra le percentuali sventolate dai partiti più forti, il Pd e Fratelli d’Italia, e la base elettorale sempre più ristretta. Il male che corrode la democrazia, ne ulcera lo spirito, è tutto in questa piramide rovesciata fra platea elettorale sempre più esigua e rappresentanza politica sempre più immobile. È importante notare che in Umbria e in Emilia Romagna, come pure in Liguria dove il centrodestra ha vinto con Marco Bucci contro Andrea Orlando, gli eletti sono tutti ex sindaci: De Pascale lo era di Ravenna, Stefani Proietti di Assisi e Bucci di Genova. Si è trattato, cioè, di candidati non calati o imposti da Roma. Gli sconfitti hanno tutt’altra biografia. Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia, politico “romano” a tutto tondo, lontano dall’attività amministrativa. Così Elena Ugolini, candidata indipendente del centrodestra, ugualmente digiuna di amministrazione locale anche se molto attiva nel terzo settore, aveva come unica esperienza l’incarico di sottosegretaria all’Istruzione del governo Monti. Si tratta di notazioni marginali ma in qualche misura significative per comprendere sulla base di quali umori i pochi elettori hanno dato il loro voto.

Non si tratta di una vendetta dei territori sulla politica romanocentrica. Più banalmente gli elettori mandano un segnale ai leader politici per rivendicare il diritto di votare candidati riconoscibili e affidabili per il loro impegno amministrativo, per l’esperienza maturata e dimostrata nel contatto quotidiano con i cittadini. Per una politica asfittica, consumata nelle cronache e nei retroscena dei giornali che sbiadiscono sul banco degli edicolanti in attesa di tornare al distributore, è un toccasana miracoloso ma solo fino a un certo punto.

Nel caso dell’Umbria, con la sconfitta della presidente uscente, Donatella Tesei, si è trattato di un verdetto politico. E il peso di quella sconfitta sta tutto sulle spalle già cariche di Matteo Salvini. Meloni, si sa, era contraria a ricandidare la Tesei per la gestione non esattamente brillante della Regione. Ha voluto dare soddisfazione al suo alleato, ma gli elettori hanno punito il braccio di ferro durato troppo a lungo nel centrodestra.

Salvini e Giuseppe Conte, leader di ciò che rimane del rumoroso esercito dei Cinquestelle, sono gli unici sconfitti di questa tornata elettorale. Per loro e i loro elettori può valere quello che il generale Armando Diaz scrisse il 4 novembre 1918 nel bollettino della vittoria sugli austriaci. “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Salvini e Conte erano i generali di due eserciti elettorali sopra il 30% nel 2019.

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