Il Consiglio Ue del 20 e 21 marzo ha un’agenda “fittissima“, come sottolineato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, che ha definito questi giorni cruciali per il futuro del Vecchio Continente. I leader dell’Ue si sono riuniti a Bruxelles per trattare di competitività, difesa e sostegno all’Ucraina, oltre ad affrontare il delicato tema del prossimo quadro finanziario pluriennale, dei flussi migratori e degli ultimi sviluppi in Medio Oriente.
Argomenti diversi tra loro ma tutti legati da un comune denominatore, ovvero la necessità di dover procedere con una certa urgenza, per evitare di rimanere indietro sulla scacchiere mondiale. Mentre Mosca e Washington annunciano il prossimo incontro delle loro delegazioni a Riad, dove proseguiranno le trattative per la pacificazione dell’Ucraina, l’Unione europea fatica a trovare una strada che possa accontentare le richieste di tutti i presenti.
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Così, le conclusioni sull’Ucraina vengono approvate solo da 26 Paesi e non all’unanimità. Lo strappo arriva dall’Ungheria di Viktor Orban, che ha giustificato la sua decisione parlando di “divergenze strategiche“. Nello specifico, Ankara non condivide il principio su cui si sta basando l’Ue di Ursula Von der Leyen, ovvero quell'”ottenere la pace attraverso la forza“, che presuppone l’invio di armi e sostegni all’Ucraina, al fine di permetterle di difendersi dall’invasione russa.
Oltre all’Ungheria, però vi sarebbero anche altri Paesi piuttosto scettici sul proseguo degli aiuti economici e militari a Kiev. Lo ha dimostrato il tentativo dell’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera, l’estone Kaja Kallas, che ha presentato un piano mai discusso con gli altri vertici dell’Unione, che prevede l’invio di ulteriori 40 miliardi di euro all’Ucraina, sulla base del Pil dei singoli Paesi.
Il progetto ha lasciato scettico più di qualche Paese e Kallas ha quindi dovuto abbandonare questa strada, diminuendo l’importo del piano a 5 miliardi di euro. Si tratta della stessa cifra che ha chiesto Volodymyr Zelensky nel corso del suo intervento in videocollegamento con il Consiglio Ue.
L’arrivo di Meloni a Bruxelles e la cena con gli eurodeputati di Ecr
Giorgia Meloni è giunta a Bruxelles per il Consiglio Ue nel tardo pomeriggio di ieri, a poche ore di distanza dalle comunicazioni alla Camera che si sono concluse con l’insorgere delle opposizioni, indignate dalla presunta strumentalizzazione che il premier avrebbe fatto del manifesto di Ventotene. In Belgio, il Presidente del Consiglio è stata accolta con emozioni ben diverse, in particolare dagli eurodeputati dell’Ecr, il gruppo dei conservatori e dei riformisti, di cui fa parte Fratelli d’Italia.
Meloni, dopo un incontro con la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, per discutere dei temi che saranno affrontati oggi, si è recata ad una cena informale con i deputati europei, necessaria a ribadire la compattezza del gruppo dei Conservatori e dei Riformisti e ad analizzare alcuni nuovi scenari che in questi giorni si sono manifestati all’orizzonte. L’obiettivo è arrivare preparati al Consiglio Ue di oggi, dove saranno discusse risoluzioni su temi fondamentali, compreso il riarmo.
A poche ore dall’inizio del vertice, Meloni ha incontrato la Presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, con cui ha affrontato alcuni dei temi all’ordine del giorno. Nello specifico, sembrerebbe che il premier abbia sottolineato la necessità che nell’ambito del rafforzamento della difesa, in tutti i suoi ambiti, si ponga l’accento sulla partecipazione del capitale privato, magari attraverso il modello InvestEu, e su strumenti europei comuni che non pesino direttamente sul debito degli Stati.
Consiglio Ue, la posizione dell’Italia
All’interno di questo quadro così composito e complesso, la situazione dell’Italia sembra sempre più preoccupante. Le questioni da affrontare sono molteplici ma per il momento il nostro Paese non sembra avere le idee chiare quasi su nulla. Al momento, l’unica certezza è la volontà di non procedere con l’invio di truppe a Kiev e di non attivare la clausola di salvaguardia nazionale per la difesa. Molti altri Paesi potrebbero assumere la stessa posizione, soprattutto i “frugali“, che temono il ricorso a nuovi Eurobond.
Proprio per evitare che il Consiglio si trasformi in un punto di rottura, la Commissione ha presentato il Libro Bianco sulla difesa, che riassorbe in modo organico il piano ReArm Europe, e fornisce maggiori dettagli per la sua messa a terra. Sembrerebbe che tra gli obiettivi principali vi sia la volontà di aumentare la cooperazione tra gli Stati, che sono “invitati a incrementare gli acquisti congiunti” per raggiungere l’obiettivo del 40% che è stato proposto dalla Strategia europea per l’industria della difesa.
Si ipotizza, poi, un ricorso allo strumento “Safe“, ovvero il fondo da 150 miliardi costituito dai prestiti dei Paesi membri. Questa possibilità, di nuovo, potrebbe non convincere tutti e 27 gli Stati, consapevoli che per potervi accedere dovranno presentare progetti e associarsi tra loro o con almeno un Paese della zona Efta – Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera – più l’Ucraina.
Altro tema su cui l’Italia resta più che scettica riguarda la produzione dei nuovi armamenti dell’Ue. Sembrerebbe che il Consiglio voglia inserire delle clausole specifiche che rendano obbligatorio il “Made in Europe“, chiedendo che almeno il 65% dei prodotti non complessi siano formati da componenti europei e che i prodotti strategici, come la difesa area, siano invece prodotti interamente dall’Ue. L’Italia, però, nutrirebbe un certo scetticismo perché da questo piano sono per il momento esclusi Usa e Regno Unito.
Il Consiglio odierno potrebbe quindi passare alla storia come uno dei momenti cardine della politica europea. L’Ue si trova ad affrontare tempi difficili e velocissimi, faticando a stare al passo dei continui cambiamenti e del costante bisogno di evolversi e prendere nuove decisioni. Oggi come non mai sembra pesa la mancanza di compattezza all’interno del Vecchio Continente, che non è ancora pronto ad esprimersi con una voce unica e compatta e rischia di spaccarsi ad ogni nuova votazione.
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