“Fate qualcosa, non so che cosa ma fatelo”. Deve essere stata l’eco del monito lanciato da Mario Draghi al drappello di senatori e deputati che lo ascoltavano, mercoledì scorso, con umiliante impazienza, a smuovere le acque del Consiglio europeo di Bruxelles che “qualcosa ha fatto”. Ha rinominato il piano – da Rearm a Readiness 2030 – così da tranquillizzare quei leader preoccupati dalle reazioni dei loro elettorati. Ha confermato che le spese per la difesa e la sicurezza – 650 miliardi da spendere per i 27 Paesi – saranno scomputate dai parametri del Patto di Stabilità. Ha accettato la richiesta di Meloni di aprire alla partecipazione di privati, secondo un modulo “Invest Eu”. Richiesta che può sembrare stravagante, se si pensa a un piano fatto di cannoni e droni e aerei da combattimento. Invece il piano Readiness comprende la cybersecurity, le infrastrutture materiali e immateriali connesse alla sicurezza: cioè un insieme di settori “misti” la cui produzione ha carattere militare e insieme civile.
È tanto? È poco rispetto alla partenza a razzo di Parigi e Londra? Si può ragionevolmente dire che “qualcosa ha fatto”. Nell’approccio fin qui tenuto dai Paesi dell’Unione non è importante misurare la quantità o la qualità dei piani nazionali. Molto di più importa individuare un metodo e quindi fissare le priorità del programma. Si parla qui del Readiness 2030, ma il Consiglio di giovedì scorso si è soffermato in particolare sull’urgenza bruciante del momento. La guerra in Ucraina ha assorbito infatti molto del tempo nel vertice e all’aggressione di Putin sarà dedicato il prossimo vertice in programma a Parigi, mercoledì 26 marzo, del gruppo dei cosiddetti “volenterosi”. Con un fatto relativamente nuovo quale è la partecipazione di Giorgia Meloni. Non è in sé una notizia clamorosa, per la ragione che Meloni non aveva mai escluso del tutto un contatto con i Paesi Baltici, Finlandia, Germania, Francia, Inghilterra cioè Paesi che, spronati dal premier inglese Starmer, stanno valutando l’ipotesi di mettere insieme una forza militare di 30-40 mila soldati da spedire in Ucraina come ”sentinelle” una volta accettato da Putin il cessate il fuoco.
Leggi Anche
È però un evento importante la presenza di Meloni a Parigi, mercoledì prossimo, perché segnala la crescente inquietudine di una premier costretta ad agire, e assumere decisioni, in un quadro internazionale percorso da quotidiane scosse telluriche in parte, se non tutte, generate dalle imprevedibili decisioni di Donald Trump. Di fronte alle quali l’Unione europea ha capito l’importanza di reagire non in contrasto agli Usa certo, però, per marcare un’autonoma capacità di iniziativa rispetto agli eventi. Il risultato di tanta frenetica mobilità è che ogni incertezza rischia di essere pagata a caro prezzo. Se l’Europa si porta troppo avanti sotto le sferzate di Starmer, e l’America alza i muri tariffari di Trump, per Meloni diventa angosciosa ogni decisione perché qualunque essa sarà potrà ridurre la distanza da Bruxelles e accrescerla da Washington, e viceversa.
L’illusione di prestarsi come “ponte” fra Europa e Usa è, appunto, un’illusione. Trump ha combinato fin qui brutti pasticci nel rapporto in costruzione con Putin. Ha trattato il dittatore russo con il riguardo dovuto al premier di un Paese potente. La forza di Putin è vera, sul piano personale. Ma lui è il leader di un Paese sfinito dalla guerra, persa sicuramente, sul piano morale. Quella che doveva essere un’operazione “speciale di polizia” da chiudere in una settimana, dura da oltre tre anni. È costata alla Russia un milione di vittime: secondo l’intelligence britannica almeno 250 mila sono i morti e circa 750 mila i soldati feriti gravemente. La Russia ha un’economia al collasso, la Banca centrale ha alzato il tasso di sconto al 21% per sovvenzionare i prestiti di guerra allo Stato.
È mai possibile che fra i consiglieri di Trump non se ne trova uno in grado di analizzare le conseguenze di questa situazione?
Meloni andrà a Washington, certo in competizione con Matteo Salvini ridotto a sbracciarsi vistosamente per essere notato da JD Vance e parlargli al telefono e poi comunicarlo, giulivo, al resto del mondo. Meloni non è di questa pasta. Sa muovere passi accorti e misurati. Quando sembra sbilanciarsi verso Trump, ecco l’annuncio che sarà alla riunione dei “volenterosi”, quasi a bilanciare il suo sbilanciatissimo vice. Al quale si rivolge anche Tajani per ricordare che la politica estera è nella titolarità del presidente del Consiglio e della Farnesina e Salvini può incontrare chi vuole. Perché Salvini può incontrare Vance e poi, in aula, votare per l’invio di armi all’Ucraina. Può impartire un’assurda benedizione ai dazi di Trump mentre la presidente Meloni ha capito l’importanza di raccordarsi con l’Europa per limitare i danni. È un gioco all’elastico, sostenibile finché Salvini smette la maschera trumpista in Parlamento. Destinato a finire il giorno in cui il leader leghista dovesse capire che gli elettori gli stanno voltando le spalle. Quel giorno o tenterà un Papeete bis, oppure qualcun’altro avrà preso le redini della Lega. Meloni può guardare con relativa tranquillità il quadro politico italiano. Bene farà a indirizzare ogni energia sullo scacchiere europeo.
© Riproduzione riservata