Era uno shotdown atteso, non nella dimensione drammatica in cui si è manifestato. La guerra in Ucraina e i modi per mettervi fine hanno scavato un solco profondo fra Stati Uniti e Unione europea, evento solo fino a qualche mese fa ritenuto altamente improbabile se non impossibile. All’Assemblea dell’Onu è andata in scena una battaglia sulle risoluzioni al termine della quale è rimasto sul campo il telo lacerato della solidarietà atlantica. Gli Stati Uniti hanno presentato un documento, vago molto più che neutrale, per chiedere semplicemente la fine del conflitto. Da Ucraina e paesi europei sono arrivate proposte emendati molto incisive con cui si ribadiva la distinzione fra aggressore e aggredito ma, cosa più importante, veniva ribadito il diritto di Kiev a vedersi riconosciuto il diritto alla sovranità e all’integrità territoriale come premessa per raggiungere un accordo di pace “giusto e duraturo”. Parole nette e chiare, inaccettabili per Trump e per Putin. I loro ambasciatori al Palazzo di Vetro hanno annunciato il voto contrario ma gli emendamenti “euro-ucraini” sono passati con ampio di voti.
Inutile ripetere qui una cronaca già ascoltata nei notiziari o letta sui giornali. Preme, invece, richiamare alcuni punti cruciali per cercare di capire verso quale direzione si potrebbe indirizzare il conflitto costato, secondo stime generiche, oltre 1 milione di morti fra i due fronti, e distruzioni materiali incalcolabili in Ucraina. È verosimile ipotizzare una tregua prima di giungere al cessate il fuoco definitivo? Sul punto è stato netto Volodymyr Zelenski, la settimana scorsa: la tregua non funziona, come hanno dimostrato gli accordi di Minsk. È un cessate il fuoco, immediato e senza riserve, il passo necessario per aprire il tavolo negoziale.
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E si arriva al secondo punto, forse il più controverso visto le premesse fatte dal ministro degli Esteri russo, Serghej Lavrov, dopo il suo incontro con il segretario di Stato Marc Rubio. La Russia ha escluso fino a oggi di poter accettare la presenza di Kiev e dell’Ue come soggetti attivi del negoziato. Il voto contrario dall’Assemblea Onu di oggi, dice però il contrario. Dice che l’Unione europea, messa sotto pressione dalle iniziative di Trump, ha puntato i piedi perché vede nella vicenda ucraina un monito di quello che domani potrebbe ripetersi in un qualsiasi altro Stato confinante della Russia. Non è un caso se Polonia, Paesi Baltici, Finlandia e Svezia sono i più risoluti nel pretendere di sedere al tavolo dei negoziati, insieme a Zelenski.
Si può ragionevolmente affermare che il voto dell’Assemblea dell’Onu ha restituito alla sua più autentica dimensione europea la vicenda ucraina, sottraendola alla logica bipolare con cui avrebbero voluto affrontarla e risolverla Putin e Trump. E già questo segnala un cambio di scenario considerevole rispetto all’impostazione iniziale. La fase è ancora troppo convulsa e non mancano le contraddizioni in alcune proposte. Ne segnalo una sulle altre. Il presidente Macron ha confermato, durante un breve briefing con la stampa insieme a Trump, la disponibilità della Francia a fornire, con altri Paesi europei, le forze militari di peacekeeping per vigilare sugli accordi. È evidente, però, che una volta entrati nel negoziato come parte in causa e difensore degli interessi dell’Ucraina viene meno la neutralità necessaria per schierare forze di peacekeeping perché esse assumerebbero la natura di guardiani dell’Ucraina e non degli accordi di pace da far rispettare alle parti in conflitto.
Il succo politico della giornata di oggi, 24 febbraio, terzo anniversario dell’aggressione russa, è semplice: la guerra ha messo l’Unione europea nella condizione di superare di slancio anni di esitazioni, incertezze e minuetti per entrare nell’età adulta e assumersi la responsabilità di badare alla propria sicurezza. A prescindere da quello che diventerà la storica relazione con l’altra sponda dell’Atlantico. Tutti dicono di augurarsi che la Nato possa rigenerarsi, trovare un migliore equilibrio negli assetti e negli impegni militari, assolvere, dunque, a quel ruolo di secondo pilastro su cui far camminare la comunità atlantica. È possibile, e auspicabile, che ciò accada, ma perché accada è anche necessario che Washington ridefinisca con più serenità e lungimiranza l’agenda delle proprie priorità e torni a distinguere gli amici dagli avversari.
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