Quando la sinistra capirà la genesi politica di Donald Trump potrà tirare un sospiro di sollievo, guardarsi allo specchio e ripetersi come Hugh Grant in Quattro matrimoni e un funerale “cazzo, cazzo, cazzo”. Di questa sinistra è portavoce, sempre riflessivo, talvolta corrucciato ma all’occorrenza anche scanzonato, Michele Serra. Leggere il suo giudizio sugli elettori di Trump non aiuta a capire Trump. Qualcosa fa invece capire sullo stato per così dire di alterazione emotiva con cui la sinistra italiana, nel pieno di una rassegnata depressione politica, fissa lo sguardo sul mondo brutto, sporco e cattivo.
Come può manifestarsi, si interroga Serra, una leadership patologicamente rabbiosa senza il sostegno di un elettorato per metà cretino e per l’altra metà affetto dalla stessa patologia del capo? La diagnosi, si sa, non è nuova. In passato, qualcuno aveva ipotizzato che se il popolo non era d’accordo con il Comitato centrale non c’era da fare altro se non cambiare il popolo. E Stalin e Hitler riuscirono in parte nell’impresa, il primo con più fortuna del secondo. Per Mussolini, si sa, era perfettamente inutile governare l’Italia, figurarsi cambiarne il popolo.
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C’è questo vizio d’impianto nelle analisi di alcuni commentatori. Esso consiste nel leggere l’affermazione di destre autoritarie o comunque inseminate dal demone dell’autoritarismo come la reazione alla crisi di ideali della sinistra tradizionale, risucchiata dal vortice della globalizzazione e riemersa a pelo d’acqua sostenuta da fenomeni come il presentismo della “cancel culture” o dal pallore di quella cultura woke in cui si infilano scuse secolari per tutti i torti inflitti dall’Occidente e patiti in rabbioso silenzio dal resto del pianeta.
Rifugiarsi nello schema secondo cui il populismo becero di Trump e dei suoi stanchi imitatori europei è solo la reazione al ventennale globalismo, o la rivolta dei popoli impauriti contro l’immigrazione incontrollata, o anche solo la rivendicazione della propria appartenenza alla Nazione e ai suoi “sacri confini”, significa semplicemente accomodarsi in una comfort zone. Si ha, abbiamo tutti, un po’ paura di riconoscere saltato lo schema destra-sinistra al cui interno si è realizzata la democrazia dopo il 1945.
“Quella” sinistra e “quella” destra sono evaporate, non come causa ma come effetto dello stato comatoso in cui versano le democrazie. Trump non è Reagan, allo stesso modo Jean-Luc Melenchon non è Mitterrand né Marine Le Pen è Chirac o Pompidou. Quando le democrazie devono alzare i ponti levatoi, perché lo chiedono gli elettori impauriti dai leader o perché lo promettono i leader dopo aver suscitato le paure degli elettori, per evitare di contaminarsi con un mondo esterno che preme sui nostri confini, in quel momento il respiro delle democrazie si fa affannoso. Alzare i muri è più semplice che governare un fenomeno, perché richiede fatica e pazienza, obbliga a spiegazioni non semplici e impone tempi lunghi a una politica che invece si esaurisce nell’attimo elettorale.
All’elettore perso dietro alle inquietudini e alle paure di questo tempo è più facile raccontare che starsene in casa salva la vita, mentre impicciarsi delle aggressioni all’Ucraina o a Israele espone tutti a più gravi rischi. È in questa idea malata che si riconoscono populisti e sovranisti, militanti woke e affabulatori della cancel culture. Quello che non fa più la sinistra e che la destra fa in modo maldestro e pericoloso, è riattivare il concetto della democrazia come luogo in cui ai diritti devono affiancarsi quei doveri da troppo tempo rimossi.
Difendere l’Ucraina dall’aggressione di Putin non è solo un diritto, come tale circoscritto a quel Paese e a quel governo, ma è un dovere della comunità democratica. Discorso simile vale per Israele. La democrazia va in tilt ed eccita i suoi avversari nel preciso istante in cui si gira dall’altra parte per non guardare la realtà. Dalla manipolazione di questo precetto è nata la crisi delle sinistre e la risposta illusoria e avvelenata delle destre.
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