Quello di Schengen è il trattato europeo che ha permesso di abolire controlli interni tra gli Stati firmatari, creando un territorio dove è garantita la libera circolazione delle persone. Ha permesso per anni l’abolizione di tutte le frontiere interne e la loro sostituzione con un’unica esterna, nonché l’applicazione di regole e procedure comuni in materia di visti, soggiorni brevi, richieste d’asilo e controllo alle frontiere.
Dal 2015 in poi, però, gli ingenti flussi migratori e gli attacchi terroristici hanno spinto alcuni Paesi a reintrodurre i controlli, giustificandoli con il rischio di “minacce gravi per l’ordine pubblico e la sicurezza interna” o di “gravi lacune relative al controllo delle frontiere esterne”.
Leggi Anche
Così numerosi Paesi hanno usufruito della sospensione temporanea dal trattato. Nel 2019, la riforma proposta dalla Commissione europea si rivelò una beffa per l’Italia, perché inserì i movimenti secondari tra i motivi per cui uno Stato membro è autorizzato a reintrodurre i controlli, una clausola confliggente in modo palese con gli interessi dei Paesi di primo approdo.
Mentre il regolamento di Dublino – che ci impone tutti gli oneri per l’accoglienza dei richiedenti asilo – resta un totem intoccabile, e la redistribuzione dei migranti in Europa è inesistente, chi non riaccoglie i cosiddetti “dublinanti” può addirittura rischiare la sospensione da Schengen.
Ora il Trattato sembra davvero arrivato al capolinea, e non è una buona notizia per l’Unione europea. L’Italia ha deciso di ripristinare i controlli al confine sloveno per questioni di sicurezza nazionale dopo l’aumento dei flussi migratori e l’aggravarsi della situazione in Medio Oriente, e sono in tutto undici i Paesi dell’area Schengen ad aver chiuso le frontiere.
Torna dunque a tutti gli effetti l’Europa dei muri, e forse non c’è piena consapevolezza di cosa questo significhi: gli accordi di Schengen sono sempre stati infatti considerati il punto d’approdo dell’integrazione europea e uno dei pilastri stessi del progetto comunitario, e il loro (provvisorio?) annullamento – anche se determinato da un oggettivo stato di necessità – comporta un ritorno al passato che proietta molte incognite sul futuro dell’Unione.
Per troppo tempo l’Europa, fino dai flussi indotti dalle primavere arabe, ha minimizzato i rischi di un’immigrazione incontrollata, soprattutto sulla rotta mediterranea, e solo dopo l’attacco di Hamas a Israele ha ascoltato gli allarmi sui rischi del terrorismo legati all’arrivo dei barconi dal Nordafrica.
Eppure la cronaca degli ultimi anni ha dimostrato che i fondamentalisti si confondono fra le decine di migliaia di immigrati irregolari, basta osservare i dati relativi alle espulsioni per estremismo, alcune delle quali hanno riguardato “individui che erano già stati rimpatriati in precedenza, ma che avevano poi cercato di ritornare in Italia, nonostante il divieto di rientro”.
Il ritorno delle frontiere interne è quindi strettamente legato al mancato controllo di quelle esterne, attuato solo (in parte) per la rotta balcanica, con l’illusione che il pilatesco scaricabarile sui Paesi di primo ingresso attraverso il Regolamento di Dublino fosse la soluzione del problema.
Muri e fili spinati sono retaggi di un’epoca che ritenevamo consegnata definitivamente alla storia, ma la latitanza dell’Ue li ha di fatto reintrodotti, e non solo ai confini esterni da Ungheria, Slovenia, Austria e Grecia – a cui se ne sono aggiunti altri in Polonia, Estonia e Lituania – ma anche quelli ripristinati all’interno della stessa area Schengen: la Francia, ad esempio, blindò le frontiere già nel 2015, subito dopo gli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan, e nonostante la successiva raccomandazione della Commissione europea di non derogare al principio della libera circolazione, sette Stati membri su ventisei hanno poi ripristinato i controlli d’emergenza alle frontiere interne senza mai più toglierli, e altri undici li introdussero tra marzo e aprile 2020 quando esplose la pandemia.
Ormai Schengen, insomma, è un’area in cui si fa dell’eccezione la norma, e bisogna amaramente registrare il fallimento del patto originario che prevedeva l’eliminazione dei controlli interni abbinata al controllo rigido delle frontiere esterne, condizione evidentemente non rispettata, e in questo senso è ingiusto mettere l’Italia sul banco degli imputati, perché ogni volta che i suoi governi hanno tentato di porre un argine all’immigrazione sono subito partiti ammonimenti e richiami al diritto internazionale.
Il principio della minaccia ibrida è stato fatto valere solo per la Grecia e poi per la Lituania nei confronti dei migranti usati come arma di destabilizzazione dal regime bielorusso. L’Italia si trova così sotto scacco perché le modifiche al trattato di Dublino non hanno mai davvero attenuato gli oneri per i Paesi di frontiera sul Mediterraneo, i meccanismi di relocation non hanno mai funzionato e i movimenti secondari sono considerati un motivo valido per la chiusura delle frontiere dei Paesi confinanti.
Ora siamo al “redde rationem”, con la rinuncia all’area Schengen che in nome della sicurezza comporta però conseguenze sociali, politiche e anche economiche, visto che una sospensione a tempo illimitato degli accordi originari potrebbe costare all’Europa fino a 1430 miliardi di perdite in nove anni.
© Riproduzione riservata