Riforme: perché al centrodestra converrebbe puntare sul presidenzialismo e non sul premierato

Il centrodestra ha accantonato il presidenzialismo e scelto il premierato con l‘obiettivo di coinvolgere almeno una parte dell’opposizione nella riforma costituzionale della forma di governo

Beppe Santini
7 Min di lettura

Il centrodestra ha accantonato il presidenzialismo e scelto il premierato con l‘obiettivo di coinvolgere almeno una parte dell’opposizione nella riforma costituzionale della forma di governo. Ma il fronte sinistro dello schieramento politico è già pronto ad innalzare barricate, e per la battaglia in Parlamento si preannuncia una grande ammucchiata da Fratoianni a Calenda, passando per Schlein, Conte e Magi: nulla di nuovo sotto il sole, visto che sulle riforme, nonostante i tentativi delle Bicamerali, non è mai stato possibile quadrare il cerchio. L’unica forza disponibile al confronto è Italia Viva che – primo firmatario Renzi – il 23 agosto ha presentato una proposta di legge che prevede il cosiddetto “sindaco d’Italia”.

Calenda invece ha cambiato idea, e dopo aver sottoscritto un programma elettorale in cui il premierato figurava tra le priorità ha cambiato idea, pronunciando un no “senza se e senza ma”. Anche qui nulla di nuovo, conoscendo le giravolte di Calenda. La maggioranza delle opposizioni (scusate il bisticcio di parole) è schierata dunque sul “no” pregiudiziale in base al concetto che “le prerogative del Presidente della Repubblica non si toccano”. Obiezione alla quale la ministra Casellati ha risposto giurando che “la riforma sarà un modello italiano che non svuoterà il Quirinale…”. Perché “i pilastri essenziali della riforma sono due: stabilità dell’esecutivo ed elezione diretta del premier da parte dei cittadini, ma in un sistema di pesi e contrappesi il ruolo del Capo dello Stato come garante dell’unità nazionale resterà cruciale e insostituibile”.

Ma allora che premierato sarà? Quello all’inglese o il cancellierato alla tedesca? Chi ha qualche nozione di diritto costituzionale sa bene che c’è una grande differenza. L’unica cosa certa è che la riforma verrà approvata senza raggiungere i due terzi dei parlamentari, e quindi sarà necessario passare da un referendum che avrà più o meno il seguente quesito: “Volete voi un premier eletto direttamente dal popolo?”. Al momento è abbastanza inutile indugiare sui dettagli del progetto Casellati, che dovrebbe prevedere anche un modello di elezione del premier che ricalca l’Italicum, ossia la legge elettorale legata alla riforma Renzi-Boschi già dichiarata parzialmente incostituzionale dalla Consulta. Il problema vero infatti non è questo, ma come e quanto saranno toccati i poteri del Capo dello Stato. E qui casca, come sempre, l’asino: è già partita infatti la batteria di costituzionalisti e politologi di sinistra per fare argine contro “la destra che mira dritto a Mattarella”, per mettere le mani avanti sul fatto che il Quirinale perderebbe le sue funzioni mentre oggi “il governo è già troppo forte”. Un film già visto ogni volta che si parla di toccare la seconda parte della Costituzione, e che torna come riflesso pavloviano del poderoso apparato politico-mediatico che si erge sistematicamente a difesa dello “status quo”.

La prima domanda da porsi è perché il centrodestra ha rinunciato in partenza al presidenzialismo, che rappresenta una delle sue battaglie storiche. Si obietterà che per una riforma che incide sulla forma di governo è giusto rinunciare a qualcosa della propria identità nel tentativo di arrivare a un’ampia condivisione dell’arco parlamentare, anche sulla scorta dell’esperienza secondo cui le riforme non condivise o hanno fatto una brutta fine o hanno causato solo danni, come quella del Titolo V voluta dalla sinistra nel 2001. Ma il presidenzialismo figurava tra le priorità del programma con cui il centrodestra ha vinto le elezioni, e aveva il diritto e il dovere di portarlo avanti. La seconda domanda attiene ai rischi che la premier ha intenzione di correre sulle riforme: i referendum costituzionali sono partite strane, in cui non è richiesto un quorum, e vince dunque chi è più in grado di mobilitare un elettorato che su questi temi è sempre distratto. Immaginiamoci dunque lo scenario che si presenterebbe se il premierato completasse l’iter parlamentare: il fronte contrario muoverebbe tutte le sue pedine sui giornali, in televisione, sul web e nelle piazze non solo per denunciare la svolta autoritaria del governo (cosa che non fa più breccia da tempo), ma per presentare la consultazione come uno scontro implicito tra Meloni e Mattarella, e per la premier non si potrebbe profilare contesa più rischiosa, visto che Mattarella resta l’unica figura politica più popolare di lei. La premier è più accorta di Renzi, ed eviterebbe di personalizzare il referendum, ma sarebbero i suoi avversari a imporre questa lettura, identificando il quesito come una scelta di campo fra la massima carica dello Stato e il capo del governo.

Vale dunque la pena correre questo rischio? O non sarebbe più accorto puntare sulla battaglia presidenzialista, visto il consenso plebiscitario che questa formula incontra fra gli italiani? Certo, ci vorrebbe una riforma che preveda gli opportuni contrappesi, ma ci sarebbe almeno il vantaggio di presentare un quesito semplice e di larga presa popolare, che toglierebbe di mezzo l’insidioso fattore Mattarella: basterebbe infatti prevedere che la riforma entrerebbe in vigore alla fine del secondo Settennato dell’attuale presidente, e uscito di scena il nume tutelare del Paese, il suo successore sarebbe scelto direttamente dal popolo. Siccome la sinistra non ha alcuna intenzione né interesse ad aprire un dialogo sulle riforme istituzionale, il governo farebbe meglio, insomma, a ripescare il presidenzialismo, su cui sarà più facile mobilitare il proprio elettorato.

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