In tutti i sondaggi è il leader politico meno popolare, ma è difficile per chiunque, anche per i suoi più incalliti detrattori, negare che Renzi sia il migliore, con la emme minuscola ma sempre il migliore, e che abbia più titoli di tutti per dichiararsi riformista
In tutti i sondaggi è il leader politico meno popolare, ma è difficile per chiunque, anche per i suoi più incalliti detrattori, negare che Renzi sia il migliore, con la emme minuscola ma sempre il migliore, e che abbia più titoli di tutti per dichiararsi riformista. Per cui assumere la direzione editoriale del quotidiano omonimo è stato sicuramente un colpo di teatro, ma questa apparente follia una logica ce l’ha, eccome. “Chi è il riformista?” – si è chiesto nel suo primo articolo di fondo – Uno che non va di moda. Perché oggi funzionano i sovranisti a destra, gli estremisti a sinistra. E i populisti, ovunque. Nel tempo degli slogan, il riformista studia, propone, lotta. Poi sbaglia, cade, riparte. Ma sempre a viso aperto, sempre animato dalla passione per la realtà, non per l’ideologia”. Una linea che gli auguriamo abbia più successo col giornale che col Terzo Polo, che sembra già avere un grande futuro dietro le spalle perché quella del centro si sta dimostrando, più che una prateria, un campo minato. Ma, anche se sarà difficile tenere distinto il ruolo di direttore da quello di leader di Italia Viva, si può comunque scommettere che Renzi sarà un protagonista anche di questa legislatura, a partire dalle riforme istituzionali che stanno per essere messe in cantiere e di cui si è già detto disponibile a discutere.
Le sue mosse del cavallo, del resto, hanno condizionato nel bene e nel male la politica dell’ultimo decennio. Come quando fece nascere tra la sorpresa generale il governo Conte due e come quando decise di mandarlo a casa per aprire la strada a Draghi. La sua lunga marcia, nonostante la giovane età, lo portò prima a Palazzo Vecchio contro il volere del suo stesso partito e poi a Palazzo Chigi, con una manovra di Palazzo di cui è maestro. In quelle dorate stanze, però, contrasse il virus della Corona, alias sindrome di onnipotenza che ne determinò, causa bocciatura del referendum costituzionale, l’inizio della parabola discendente. I politologi si interrogano ancora sulla reale statura di una figura così controversa e divisiva: se siamo davanti cioè a uno statista della scuola fiorentina oppure all’epigono perfetto del Giamburrasca di Vamba. Che una volta detronizzato dal vertice del Pd fondasse un partito a sua immagine e somiglianza era assolutamente scontato, e da allora i sondaggi hanno sempre certificato che Renzi è inviso, ben oltre i suoi demeriti, al 90 per cento degli elettori, tanto che Travaglio scrisse con sommo compiacimento che Berlusconi per restare sulle scatole agli italiani ci ha messo vent’anni, mentre Renzi solo tre. Una perfidia oggi ricambiata con l’immagine del direttore del Fatto quotidiano ritratto in ginocchio davanti a Napolitano per la topica della inesistente trattativa Stato-mafia.
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Ma l’attuale, sedimentata impopolarità non può far dimenticare che per molti anni l’attuale senatore di Scandicci ha riscosso simpatie anche in una fetta di elettori del centrodestra, che lo vedevano come una breccia riformista nel muro ideologico della sinistra. Un consenso bruciato dalle giravolte di un fuoriclasse andato troppo spesso fuori giri recitando a soggetto: da segretario del Pd passò dal sostegno a Letta junior alla sua sostituzione con sé stesso, dall’esaltazione del patto del Nazareno alla scelta di farlo fallire, dalla promessa di lasciare la politica in caso di bocciatura referendaria al tentativo di mantenere la sua ipoteca sugli sviluppi successivi, tutto con l’unico, martellante obiettivo di tornare prima possibile a Palazzo Chigi. Errore strategico, quello di voler rimanere su piazza alla ricerca di una rivincita immediata invece di sparire per un po’ dalla scena: l’Italia, si sa, è affascinata dagli uomini forti, ma per loro ha sempre pronto, dietro l’angolo, un piazzale Loreto. Ma per Renzi è impossibile cambiare narrazione: lui è il sole, gli altri i satelliti che gli girano intorno. Un marchese del Grillo, insomma, con la differenza non lieve che il nobile di Monicelli non aveva lo scomodo impiccio di dover affrontare referendum ed elezioni.
Eppure, a Renzi la storia dovrà riconoscere il merito di essere riuscito dove perfino Craxi aveva fallito: mettere nell’angolo la nomenklatura comunista, per di più conquistando il Palazzo d’Inverno rosso scalandolo dall’interno. Un capolavoro politico rimasto però incompiuto, perché, dopo che D’Alema Bersani e compagnia se ne andarono dal Pd senza esserne cacciati, con il partito nelle mani di una direzione bulgara-renziana, l’ex Rottamatore non smise mai di essere considerato come “il problema” (Franceschini docet). In politica come in guerra, quando si vince non si possono lasciare feriti, e invece Renzi ha rotto con la sua sinistra senza però fondare il partito della Nazione quando l’inerzia politica era tutta a suo favore, e si trovò così assediato in un limbo complicatissimo: essendo il segretario del Pd, gli insuccessi elettorali furono attribuiti tutti a lui, e ne ha pagato un conto salatissimo. Quando se ne andarono i vecchi leader ex comunisti ne rimasero troppi altri a sorvegliare il tempio contro l’usurpatore, che alla fine infatti se n’è andato anche lui favorendo il ricompattamento della vecchia gauche nel partito guidato dalla Schlein.
Bettini lo definì una tigre di carta, Cacciari che è mosso da istinti suicidi. Ma lui, nonostante tutto, resta sempre sulla scena, ed è indubbio che il suo è stato un governo riformista. Come il quotidiano che ora dirige.
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