Per dare una qualche nobiltà al suo disegno neoimperialista, e giustificare l’invasione dell’Ucraina, Putin si è spesso paragonato a Pietro il Grande, che con la Grande Guerra del Nord del 1700 sancì l’affermarsi della Russia come nuova potenza europea. Ma, a ben vedere, nel suo videomessaggio di ieri mattina per dare conto alla nazione del tentato golpe di Prigozhin, si è semmai paragonato a Nicola II, l’ultimo zar che perse il potere nella rivoluzione del 1917, appoggiata dai soldati tornati dalla Prima guerra mondiale: “Gli intrighi, i litigi e i giochi politici alle spalle dell’esercito e del popolo si sono rivelati la più grande catastrofe, la distruzione dell’esercito e dello Stato, la perdita di enormi territori, con conseguente tragedia e guerra civile”, ha detto con toni apocalittici. La saggista Anne Applebaum, in un’intervista al Corriere della Sera ha detto di considerare Nicola II e Putin simili anche per il rifiuto di vedere la realtà: “Fino al momento in cui lo zar perse il potere, prendeva il tè con sua moglie, scriveva note banali sul diario, immaginava che i contadini russi lo amassero e che sarebbero sempre stati dalla sua parte”. Se così fosse, se Putin avesse davvero perso il contatto con la realtà, significherebbe che il suo potere sta davvero tremando, e che da ieri in poi in Russia tutto è possibile, anche se non c’è da illudersi – visti i personaggi in campo – in una svolta democratica.
I continui rimandi di questi mesi al 2017 possono avere due letture: un messaggio per toccare i tasti nazionalisti molto cari al popolo russo – e in questo senso può essere interpretata l’evocazione della “pugnalata alla schiena” della rivoluzione bolscevica del 1917, vista come un tradimento delle truppe impegnate nella guerra. Una similitudine infausta, quella fatta dal capo del Cremlino, perché quando Lenin prese il potere firmò subito la pace con Austria e Germania. Il tratto surreale della storia politica di Putin da quando ha deciso l’operazione speciale è il rimbalzo fra la cronaca spietata di una guerra fallimentare e il continuo paragone fra sé stesso e gli eventi storici, con ricostruzioni che spesso tradiscono la realtà dei fatti: ricordando il 1917, infatti, Putin ha omesso di dire che da febbraio il potere era in mano a Kerensky, un avvocato che fu per pochi mesi il primo presidente della Russia, e che il leggendario assalto al Palazzo d’Inverno degli zar, sede del governo provvisorio, non fu una rivolta di popolo, ma il blitz di un piccolo gruppo di avanguardisti che ne prese possesso senza colpo ferire, perché non c’era nessuno a difenderlo. Così come l’ammutinamento della Corazzata Potëmkin, eletto a simbolo della Rivoluzione d’Ottobre, non fu un moto di ribellione contro lo zar, ma una protesta contro il cibo avariato che veniva propinato alla ciurma, e poi contro l’intenzione del comandante della nave di passare per le armi quanti avevano osato protestare. Ma se il 1917 fu comunque l’inizio di un regime monolitico, quello dei Soviet, che per settant’anni avrebbe costituito un miraggio ideologico per molti popoli, nonostante i fallimenti dei piani quinquennali, la spietata repressione interna e i milioni di vittime di Stalin, il 2023 rischia di essere l’inizio della disgregazione della Federazione russa. La rivolta della Wagner ha infatti messo a nudo la debolezza del regime putiniano, ormai isolato sulla scena internazionale e indebolito dentro i suoi confini dagli sconcertanti eventi di sabato, quando un manipolo di mercenari ha tenuto in scacco un’intera nazione, con un ex cuoco sanguinario che per la prima volta ha osato sfidare l’uomo che si ritiene la reincarnazione simbolica di Pietro il Grande e rischia invece di finire come Nicola II. Ma i ricorsi storici sono solo una narrazione a latere della realtà: oggi, a differenza del 2017, ci sono seimila testate nucleari che, in caso di guerra civile, nessuno sa a chi finiranno in mano. Uno scenario che preoccupa l’Occidente e il mondo intero.
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