Lo scambio fra ostaggi israeliani di Hamas e prigionieri palestinesi ha riportato alla mente gli orrori del 7 ottobre nei kibbutz che l’Occidente ha rapidamente dimenticato. Anzi, i cortei sono stati quasi tutti pro-Palestina, e le manifestazioni femministe hanno scientemente evitato di condannare gli stupri delle donne ebree. Quella degli ostaggi è una tragedia nella tragedia: il più piccolo ha appena nove mesi, ed è stato rapito insieme al fratellino Ariel, che di anni ne ha solo quattro. Il governo israeliano ha diffuso le foto con i volti e le storie di ventotto bambini a cui è stata barbaramente tolta l’innocenza.
Foto che tappezzano i muri delle strade di Tel Aviv e anche di qualche città occidentale, dove in molti casi sono state però strappate da mani mosse dall’odio antisemita riemerso con virulenza dai meandri di una coscienza evidentemente malata. Perché vittime e ostaggi del pogrom del 7 ottobre verranno sicuramente ricordati con ipocrita commozione, magari tra mezzo secolo, mentre oggi sono stati rimossi quasi in tempo reale da una narrazione pubblica tutta sbilanciata a descrivere la scia di morte provocata dall’inevitabile intervento militare israeliano a Gaza. Tutti in cattedra a impartire lezioni a Israele su cosa dovrebbe fare o non fare, ma nessuna mobilitazione per la liberazione degli ostaggi o per ricordare le donne stuprate e massacrate dai guerriglieri di Hamas.
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Solo qualche sporadico appello, solo un’accoglienza frettolosa dei familiari da parte del Papa, solo qualche performance di artisti isolati, perché il gotha culturale dell’Occidente non sta mai dalla parte di Israele. C’è allora una domanda tanto inevitabile quanto allucinante da porsi sui motivi del ritorno di un antisemitismo tanto virale (per usare un brutto termine in voga) nelle nostre società, e l’unica spiegazione plausibile si ritrova nell’atavico pregiudizio contro gli ebrei che alligna anche nelle democrazie.
Eppure le immagini degli attacchi contro i civili ebrei, che l’organizzazione terroristica si è premurata di diffondere, sono talmente sconvolgenti da superare ogni limite etico della capacità umana, ed è altrettanto sconvolgente che tanta gente “normale” ne abbia perso memoria così presto e che, anzi, le manifestazioni a favore dei terroristi abbiano di gran lunga sovrastato quelle di solidarietà al popolo ebraico. Cosa avvenuta anche in troppi talk-show in cui è prevalso il giustificazionismo per l’orribile atto di guerra di Hamas, come se – in un cortocircuito logico – la responsabilità fosse sempre e soltanto di Israele. Ma uno Stato bersaglio di un attacco terroristico di tale portata contro i suoi civili ha il dovere di proteggerli impedendo alla radice che quel tragico 7 ottobre non possa ripetersi mai più, e l’unico strumento è la liberazione di Gaza da un nucleo di potere integralista che ha usato i miliardi piovuti dalla comunità internazionale non per sfamare la popolazione ma solo per aumentare il suo arsenale bellico.
Hamas, però, viene ugualmente considerato un Movimento per la liberazione del popolo palestinese dall’oppressore ebreo: dalla sua parte si è di fatto schierata l’Onu, che manipola i diritti umani a seconda delle convenienze, e il suo Comitato per l’eliminazione della protezione contro le donne si è ben guardato dal condannare gli stupri contro le ragazze israeliane, molte delle quali poi uccise e mutilate. Le autopsie hanno accertato che le violenze sono state tali da provocare la rottura delle ossa pelviche. Non solo: il corpo di una donna nuda è stato esibito nelle strade di Gaza e un’altra, ancora viva, aveva i pantaloni insanguinati. Lo stupro di massa faceva parte del piano di guerra elaborato dagli strateghi di Hamas, ma le organizzazioni femministe o hanno taciuto o hanno addirittura messo in campo una campagna negazionista nonostante le prove inequivocabili che gli stessi terroristi hanno impudentemente fornito. La sorte degli ostaggi è ancora incerta, perché la loro liberazione dipende da tante variabili mentre la guerra non è ancora finita, ma se e quando avverrà il quadro degli orrori si completerà con le loro testimonianze. Non illudiamoci però che questo cambi verso a quell’Occidente che considera Israele non una nazione simbolo dei nostri valori, ma un ostacolo per la normalizzazione dei rapporti con l’Islam.
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