Formica, in un’intervista di quattro anni fa: “Io credo di sì. Noi socialisti, gli amici di Moro e persone spinte da una preoccupazione umanitaria, come Vassalli, cercammo di spingere per la liberazione del presidente dc”
Quarantacinque anni fa il presidente della Dc Aldo Moro fu ucciso dalle Brigate rosse e il suo corpo fu fatto ritrovare nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani. Si concluse così la vicenda più drammatica degli anni di piombo e ancora oggi restano molte ombre, ben spiegate dal giudice Guido Salvini, che ha operato come consulente della Commissione Moro II nella legislatura 2013-2018. Ancora non è dato sapere con esattezza, ad esempio, quanti furono i terroristi a sparare in via Fani il giorno del sequestro, e non è mai stato svelato compiutamente il mistero delle incredibili omissioni nelle indagini. Ma Moro poteva essere salvato? E’ questo l’interrogativo più angoscioso, a cui proviamo a dare una risposta con due grandi testimoni dell’epoca: Rino Formica ed Ettore Bernabei.
Formica, in un’intervista di quattro anni fa, rispose testualmente: “«Io credo di sì. Noi socialisti, gli amici di Moro e persone spinte da una preoccupazione umanitaria, come Vassalli, cercammo di spingere per la liberazione del presidente dc. La nostra azione era alla luce del sole e gli incontri con le persone che pensavamo potessero essere tramite con le Br avvenivano all’aperto. Insomma ti pare possibile che Pace, esponente dell’estrema sinistra che dialogava con le Br attraverso Morucci, si incontra con i socialisti alla luce del sole, si vede più volte nei bar con Morucci e Faranda… E tutti questi non sono controllati? Non sono ascoltati? Seguendo lui sarebbero arrivati alla prigione”… E poi: “Tutti erano informati, Cossiga era informato, il Quirinale era informato, il Quirinale e chi stava al Quirinale oltre il Presidente, erano informati, tutti erano informati. Ora, come è possibile che ci sia stata tanta voluta trascuratezza? A mio modo di vedere il covo era conosciuto. Se poi metti in connessione che oramai è quasi certo il fatto che Mennini il prete, andò a confessarlo e poi andò via dall’Italia, fu mandato lontano dalla Chiesa…».
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Ma chi voleva Moro morto? “Questa è una domanda che non va fatta – rispose Formica – perché non otterrai mai la risposta. Devi fare un’altra domanda. Chi non lo voleva operante? I comandi militari della guerra fredda. Perché lui stava innovando le regole del passato. Sapeva che, nella guerra fredda, non potevano stare nei governi nazionali del campo occidentale quelli che erano considerati i nemici internazionali. Ma Moro, negli anni Settanta, fece un ragionamento inedito. Stava nascendo un nuovo rapporto Est-Ovest, andava avanti una politica di distensione, di dialogo tra le grandi potenze. Questo, pensava, permetteva un superamento, sul piano nazionale, della logica derivata dalla guerra fredda. Non per fare governi tra Dc e Pci, ma per realizzare una legittimazione di governo delle masse popolari anti-Stato in Italia. Che erano i cattolici, i socialisti e i comunisti. E la legittimazione avviene attraverso il governo del Paese. Dei cattolici è avvenuto, dei socialisti anche, doveva avvenire pure dei comunisti”.
Un documento ancora più probante del clima di quei giorni tragici lo si ritrova nei diari di Ettore Bernabei, raccolti nel libro di Piero Meucci “Ettore Bernabei il primato della politica”, uscito due anni fa nel centenario della nascita del grande giornalista e politico. Le pagine che raccontano il periodo intercorso tra il rapimento e l’uccisione dello statista democristiano sono ricche di pathos e di retroscena. “Quel giovedì 16 marzo, alle dieci, è previsto l’inizio del dibattito parlamentare sul quarto governo Andreotti. Un’ora prima, poco dopo le nove, in via Fani le Br massacrano cinque uomini della scorta e sequestrano Aldo Moro. Il Paese è attonito.
Sull’onda dello shock generale, la seduta per l’approvazione del governo Andreotti è rapidissima e si conclude in serata con il più ampio favore mai avuto in Parlamento da un governo. Arriva la rivendicazione del sequestro da parte delle Br. La lira tracolla nei confronti del dollaro, il mercato azionario si blocca. I sindacati indicono una manifestazione congiunta contro il terrorismo nel pomeriggio in piazza San Giovanni in Laterano…”.
“Grandi comizi hanno visto increduli democristiani e comunisti, bandiere rosse e bandiere bianche. Malgrado gli sforzi ufficiali degli oratori di sinistra di dire bene di Moro e della dc quali vittime della violenza la loro base non seguiva, non applaudiva, talvolta rumoreggiava. Per troppi anni quella base non aveva mai sentito i suoi capi condannare la violenza contro la Dc e pensava che comunque servisse a scalzare i democristiani dal potere” (16 marzo). Le Br, secondo Bernabei, hanno “un obiettivo generale di destabilizzazione dell’intero Paese e quindi della Dc che lo governa”. Ma ne hanno uno in particolare “voluto dalla stessa centrale sovietica che è quello di indebolire Berlinguer e la sua segreteria per arrivare a sostituirlo con una direzione stalinista che riporti il Pci a posizioni tradizionali di opposizione”…
L’appello di Moro fra le mura della “prigione del popolo” non cambierà la posizione di contrarietà alle trattative della Dc: “Alla riunione degli esperti della Dc (segreteria, capigruppo, Fanfani, Rumor, Colombo, Taviani, Forlani e Cossiga) si è discusso a lungo […]. Alla fine – anche su consiglio di Fanfani – è stato deciso all’unanimità di non accettare il ricatto delle trattative con le Br» (30 marzo). La sopravvivenza della Dc, in questo momento, dipende dalla forza di non piegarsi al terrorismo. Il partito resiste di fronte alle richieste della famiglia Moro, che chiede consultazioni interne: “Piccoli e Bartolomei […] sono stati incaricati di interrogare ciascuno degli otto, nove esponenti di tutti i gruppi del partito. La risposta è stata unanime: non si può trattare” (6 aprile). In una lettera alla moglie, che non è mai arrivata ai giornali perché intercettata dalla polizia, “Moro si esprime in termini molto duri nei confronti della Dc in genere», scrive Bernabei l’8 aprile. E in particolare contro coloro “che si definiscono a lui più vicini […] torna a chiedere che siano prese iniziative per salvare la sua vita arrivando a dire che in caso contrario il suo sangue ricadrà su Zaccagnini e su Cossiga”. La signora Moro avrà momenti di “scontro e di comprensibile tensione nei confronti di alcuni esponenti della Dc e particolarmente contro il segretario”. Donna Eleonora però si fa travolgere dallo strazio solo raramente, quasi sempre rimarrà “controllata, precisa, lucida nonostante il dolore”. Nella pagina di diario di giovedì 20 aprile appare una nota diversa: si apre qualche crepa nella granitica, incondizionata fermezza. “Si accentua il fronte di coloro che vogliono trattare per Moro attorno ai socialisti, ai gruppi di estrema sinistra, ad alcuni amici di Moro, della famiglia contro e dentro la dc”. Lo schieramento del “no alle trattative” si fa meno compatto. Dopo appena due giorni, il 22 aprile, il Santo Padre rivolge ai terroristi un appello di grande intensità: il papa, da uomo, si inginocchia di fronte ad altri uomini. “Io scrivo a voi, uomini delle Brigate rosse […] vi prego in ginocchio” perché liberiate Moro “semplicemente e senza condizioni”.
Mentre la linea ufficiale del partito continua a essere quella della negazione di ogni compromesso con i terroristi, il dibattito interno si fa più angoscioso: “Di fronte all’offensiva della famiglia e degli amici di Moro, al vertice della dc vi sono state ore di incertezza se aprire o no un negoziato con le Br. Ha prevalso la linea della fermezza anche per la fredda determinazione di Andreotti di non staccarsi dalla posizione di rigida intransigenza del Pci” (23 aprile). Ma ecco che si apre più di uno spiraglio. Lunedì 24 aprile Claudio Martelli, segretario di Bettino Craxi, va a trovare Bernabei: è solo l’anticamera per la preparazione di una serie di incontri riservati che si terranno a casa del diarista per discutere sulla liberazione di Moro. Bernabei trova una sorta di affinità con questo Partito socialista della segreteria Craxi. Apprezza e sottolinea il rifiuto ormai conclamato delle dottrine economiche marxiste da parte loro e la “scelta di campo occidentale in politica estera fatta al recente Congresso di Milano”. Craxi “offre alla Dc una disponibilità alla collaborazione governativa e intanto si differenzia dal Pci sostenendo che per Moro si debba trattare e non assumere la posizione rigida di restaurazione “forzata” della segreteria comunista che si vuole accreditare come difensore dello Stato” (24 aprile).
Il 26 aprile, Martelli inizia il suo pressing su Bernabei per dare finalmente il via al primo degli incontri riservati fra Craxi e Fanfani, con lo scopo di trovare un accordo immediato su Moro. La riunione si tiene nel tardo pomeriggio dello stesso giorno. Craxi parla soprattutto del problema di trattare o meno con le Br e dell’eventualità “di studiare atti di grazia e di alleggerimento del regime carcerario che possano salvare la vita a Moro”. Fanfani è possibilista e chiede chiarimenti “su ottiche che senza aprire una trattativa con le Br possano costituire apprezzabili manifestazioni di autonoma clemenza”. Su questo si concentrano i due uomini politici, ma sullo sfondo c’è di più, c’è la futura ripresa dell’asse Dc-Psi: “Una ripresa di alleanza […] in favore di distruzione del Pci” (26 aprile). Gli eventi ormai incalzano. Il 5 maggio Andreotti ha ripetuto il no alle trattative. Quello stesso giorno il nono comunicato delle br annuncia: “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo, eseguendo la sentenza”. Moro scrive alla moglie: “Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l’ordine di esecuzione”.
La cronaca di quel sabato 6 maggio, in cui si tenta il tutto per tutto per evitare la tragedia, è scandita da Bernabei con puntualità, ora per ora. Alle 18.20 Nicola Rana, il segretario di Moro, telefona a Bernabei chiedendogli se fosse disposto a recarsi dalla signora Moro: “Vado subito arrivando a via di Forte Trionfale”. Alle 18.40: “La signora Moro è come è sempre stata in questi giorni, controllata, precisa e lucida pur nel dolore e non celato rammarico per la rigida intransigenza della Dc. Osserva che solo Fanfani si prodiga in tentativi per liberare suo marito”. Aggiunge poi che anche Bartolomei “ha fatto tutto quello che ha potuto contro uno schieramento di dirigenti democristiani e comunisti uniti in un’unica ragion politica”. Donna Eleonora fa comunque un ultimo disperato tentativo: “Mi rammenta che ci sarebbe una possibilità – fuori dall’assurda liberazione dei tredici richiesti dalle Br nel comunicato del 24 aprile – di scarcerare un detenuto che ne avrebbe i diritti”. Andreotti è perplesso per questa soluzione. “Mi chiede se posso pregare il cardinale Benelli di fare pressioni su Andreotti”. Alle 19.50 Bernabei riesce a parlare con Benelli, che gli promette di intervenire con Andreotti. Alle 22 Bernabei riceve una telefonata: “Mi chiamano per dirmi che Andreotti gli aveva detto che su duecento casi esaminati nessuno era agibile”. Fanfani nel frattempo viene a sapere che “Vassalli aveva trovato un detenuto graziabile” e lo aveva indicato alla presidenza della Repubblica. Gli suggerisco di far capo al segretario generale del Quirinale Franco Bezzi per sollevare il caso. Alle 23 chiama Benelli “per dirmi che aveva parlato con Bezzi, e aveva trovato disponibilità per il caso sottoposto da Vassalli”. Bernabei comunica la notizia alla signora Moro. Lei lo ringrazia “con partecipazione”, ma nella sua voce suona una nota triste, quasi rassegnata al peggio che possa accadere (6 maggio). Lunedì 8 maggio, il giorno prima del terribile ritrovamento, “per tutta la giornata Fanfani è stato in contatto con Craxi nell’estremo tentativo di far compiere al capo dello Stato e al governo un gesto che serva a liberare Moro”. Sono ore spasmodiche. “Craxi afferma che l’avvocato Guiso non ha più il contatto che aveva nei giorni scorsi con i detentori di Moro. Si hanno segnali che Moro è ancora in vita e che pertanto qualcosa si può sempre tentare”. Per conto del Psi, Giannino Guiso aveva cercato la trattativa attraverso i brigatisti coinvolti nel processo al nucleo storico delle Br.
Il presidente Giovanni Leone si dichiara disposto a concedere la grazia alla detenuta indicata da Vassalli, “ma Andreotti ha dichiarato che non l’avrebbe mai controfirmata” (8 maggio). Il destino di Moro è segnato. Martedì 9 maggio, cinquantacinque giorni dopo il sequestro, Aldo Moro viene ucciso. In seguito a una telefonata, il suo corpo viene ritrovato intorno alle 13.30 in via Caetani, nel portabagagli di una Renault 4 rossa. In pieno centro, a pochi passi dalla sede del Pci e da quella della Dc, in un macabro simbolismo che Bernabei non manca di rilevare: «Alle 14 mi telefona il dott. Simi (dell’ufficio stampa della Questura) che il cadavere di Moro era stato ritrovato in una macchina in centro. Per l’esattezza la macchina funebre era stata lasciata – quasi a segnare una magica geometria – a cento metri in linea d’aria dal palazzo del Pci alle Botteghe Oscure e a centocinquanta metri dal palazzo della Dc in piazza del Gesù”. Qui era in corso la direzione del partito. Il segretario Zaccagnini riceve e trasmette subito la notizia. Aveva appena finito di parlare Fanfani, con “una dura requisitoria contro l’operato del governo”, annota Bernabei. Molti membri della direzione accorrono in via Caetani. Fanfani si reca immediatamente dalla signora Moro, in via del Forte Trionfale, per confortarla. “Lui è l’unico dei democristiani che la famiglia Moro accetta ritenendolo l’unico che non si è chiuso nella ragion politica di difendere lo Stato (in realtà di non rompere l’alleanza con il Pci) e che ha tentato qualcosa sul piano umano per liberare Moro”.
Il 10 maggio Francesco Cossiga si dimette da ministro dell’Interno. Le dimissioni “sono argomentate politicamente e ricordano che il ministro degli Interni ha attuato decisioni prese e condivise collegialmente da tutto il governo”. L’interim è assunto dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
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