Elly Schlein e, in misura minore, Giorgia Meloni sono, fra i leader italiani, coloro che più di altri mettono a rischio le proprie fortune politiche sul tema della difesa e della sicurezza in Europa. Il progetto ReArm Europe non è paragonabile a nessuno dei precedenti progetti europei, dal programma di contrasto al Covid al NextGenationEu. Gli 800 miliardi che la Commissione di von der Leyen chiede ai 27 Paesi di spendere, da oggi fino al 2028, segnano una svolta politica profonda. Sono il tornante della storia troppo a lungo evitato ma che oggi impone a tutti di affrontarlo, senza esitazioni o incertezze perché la posta è di quelle che non prevedono rivincite: la difesa della libertà e della democrazia. Cioè delle ragioni per cui possiamo dirci europei e siamo riconosciuti nel mondo in quanto fortunati abitanti di una spazio politico in cui i diritti, la divisione dei poteri, una Costituzione scritta, sono altrettante pietre miliari che definiscono la nostra civiltà.
Non sono bagattelle, e dimostrarlo dovrebbe essere il compito inderogabile di ogni forza politica sinceramente democratica e con altrettanta sincerità pensosa di salvaguardare la libertà, il benessere e la ricchezza civile per consegnarle alle future generazioni. Il ReArm non è come la propaganda di Vladimir Putin vorrebbe far credere alla nostra opinione pubblica, confusa e smarrita di fronte alle menzogne tambureggianti del Cremlino, rilanciate da portavoce come Salvini o Conte. Dovrebbe essere motivo di riflessione per loro il fatto che il Rassemblement di Le Pen e Bardella si muove con molta più cautela, a conferma che un avvicinamento al mainstream è sempre possibile, anche per chi parte da posizioni dichiaratamente antisistema.
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Si diceva di Schlein, più esposta di Meloni sul fronte interno, ma già parzialmente isolata in Europa nel gruppo dei socialisti al cui interno il Pd è l’unica forza con una linea fortemente critica verso il ReArm di von der Leyen. Convinta di evitare la drasticità di una scelta che non ammette compromessi, Schlein si è infilata in un vicolo cieco. Nel dibattito in corso al Parlamento europeo, chiamato domani a votare le mozioni dei vari gruppi mentre giovedì è previsto il Consiglio europeo che formalizzerà l’adozione del piano ReArm Europe, il Pd sì è fermato nella rincorsa a Conte per non trovarsi isolato nel gruppo dei Socialisti e democratici. Ha chiesto e ottenuto di inserire un paio di emendamenti nella mozione del gruppo per sottolineare la necessità di dare più spazio alle iniziative europee rispetto a quelle nazionali sul riarmo.
La drammaticità di questo tempo si può misurare nei cambi repentini di giudizio che non risparmiano nessuna forza politica. Si pensi, per dire, a Fratelli d’Italia e alla richiesta di cambiare il titolo del piano von der Leyen forse troppo inquietante alle orecchie gentili dell’opinione pubblica. “Meglio ‘Defend Europe’”. Sì, proprio così. Non è meraviglioso sapere che un solido partito, fino all’altro ieri convintamente antieuropeista e antieuro, non solo è per il riarmo ma lo è per meglio “difendere l’Europa”? Stupefacente e delizioso. E che dire del lungo corteo di trumpiani che si spellavano le mani per la vittoria del loro campione e oggi ne prendono le distanze, i francesi di Le Pen come gli spagnoli di Vox, inorriditi dal disprezzo mostrato da Trump con Zelensky?
Nel generale rivolgimento di posizioni, un vero e proprio kamasutra della politica rispetto al quale il trasformismo figura come una scuola di moralità pubblica, su tutti si è distinto lui, Giuseppe Conte. Il premier con la pochette, o la pochette sovrastata da un premier, si è messo a capo di una delegazione di campesinos, parlamentari ed euro e italiani, ha marciato su Bruxelles con velocità sorprendente rispetto alla quale la marcia di Lui su Roma sembrava una scampagnata, per urlare forte il suo no all’orgia bellicista. Detto da un ex presidente del Consiglio, avvocato e dunque esperto nell’uso del lessico, può lasciare di stucco solo chi è di corta memoria. Conte non è il portavoce di Putin, come lingue taglienti sostengono. Lui è avanzato di grado: oggi è il suo ambasciatore. In questa veste si trova a suo agio. Perché a Bruxelles porta tutto quell’afflato irenico che si respira nei saloni del Cremlino, lo stesso che animava i soldati di Putin quando, come una scolaresca in viaggio premio, giravano per l’Italia visitando quel che più gli piaceva.
Ora che la realtà ha fatto irruzione nella nostra vita con lo stesso fragore di un elefante nella cristalleria, il buon Salvini sì è visto ribaltare tutta la narrazione costruita negli ultimi mesi. Contrario al riarmo, ma come regolarsi con quel Trump che ha chiesto all’Europa di portare fino al 5% del Pil le spese per la difesa? Spiazzato dal suo amato riferimento, Salvini stenta a elaborare una strategia alternativa. Anche per lui le cose non sono semplici. C’è da scommettere che il gruppo dei “patrioti” vacillerà fra l’astensione e il voto contrario, dando per certo il no della delegazione di Orban.
Se poi il Pd pensa di salvarsi l’anima (anche se molti, dentro e fuori, cercano di capire se ne abbia una e dove sia) con due emendamenti frettolosamente inseriti nella mozione di S&D, allora Schlein fatica a fare i conti. Si è messa d’impegno e alla fine si è ritrovata al centro di un quadrilatero di contraddizioni che la metà bastavano. Dal lato Conte, la storia è vecchia: anche per lei rimane un “punto di riferimento fortissimo” (copyright Zingaretti) per la sinistra e dunque continua a essere “ostinatamente unitaria” anche se quello vuole rubargli anima, identità e voti. Sull’altro lato, c’è la manifestazione del 15 marzo a Roma. Michele Serra vuole un’Europa unita nella sua difesa, ma non il suo riarmo. L’idea è suggestiva, ma come negare che soltanto stando lunghi su un’amaca si può pensare di rispondere con la cerbottana a un eventuale attacco di droni e di missili? Allora, la povera Schlein ecco che deve farsi questa passeggiata romana per invocare la pace per l’Ucraina, la difesa dell’Europa ma niente riarmo. E migliaia di reduci dal vuoto pneumatico di Serra applaudiranno entusiasti alla quadra trovata. Su un altro lato del quadrilatero, Schlein trova qualche sospiro di insoddisfazione dentro il partito. Non proprio opposizione, per quella ci vorrebbero solidi aspiranti leader preoccupati di sottrarre il partito all’irrilevanza. Ma qualche disagio qui e là di Giorgio Gori, la rampogna del vecchio zio Prodi, e le critiche pettinate e composte di Gentiloni. L’ultimo dei quattro lati, il gruppo parlamentare a Strasburgo, è stato in parte forzato con gli emendamenti di cui sopra.
Ora, il prossimo 18 marzo Meloni sarà in Parlamento. Per sostenere in una sede istituzionale la scelta storica del suo governo che vede nell’Unione europeo l’unico ancoraggio sicuro nella tempesta geopolitica. Sì all’Unione che non vuol dire in ogni caso “no” all’America. Diciamo che il sì a Trump sarebbe in quel caso aggiuntivo al sì europeo, con una significativa inversione nella scala delle gerarchie. Salvini, risentito con Musk per le critiche rivolte alla Nato che lui, Salvini, vorrebbe rafforzare, come voterà nel Parlamento italiano? Se vota no in Europa, come potrà votare sì in Italia? La politica in quel caso si conferma in tutta la sua drammaticità e in tutta la sua scarsa serietà. Come nel film “Grand Hotel” di Lubitch, la politica ha le porte girevoli: leader che vengono, leader che vanno.
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