Come dar torto a Flavia Perina quando sulla Stampa descrive il senso di complessiva solitudine in cui si trova a operare Giorgia Meloni? Vissuta, dalla destra radicale, come colei che si è abbandonata alla deriva europea del riarmo, magari da ribattezzare con un lessico meno funereo. Additata, dal populismo trumputiniano di Conte, come una premier che ha scelto di sposare il furore bellicista dell’Unione europea. Certo, il ministro degli Esteri nonché segretario di Forza Italia, sprizza ottimismo da tutti i pori per la sostanziale adesione del governo italiano al piano “ReArm Europe” messo giù in quattro e quattr’otto da Ursula von der Leyen. Adesione politica, condita di alcune giuste, a giudizio di chi scrive, riserve tecniche sull’impianto. L’Unione europea ha deciso di accelerare nella risposta all’aggressione militare della Russia. Sul piatto saranno messi 800 miliardi per potenziare le difese nazionali: 150 a debito, 650 da finanziare con fondi europei già attivi. Non però, la prima obiezione di Meloni, con le risorse del fondo di coesione. Il vertice di ieri a Bruxelles ha un potente significato politico, e non solo simbolico vista la crudezza con cui la realtà ci propone sfide a ogni ora.
In gioco non c’era soltanto il livello di sicurezza da alzare il più possibile e nel più breve tempo immaginabile. La sfida più difficile era mostrare un’unità senza incrinature nel sostegno a Volodymyr Zelensky: c’è stata, con l’eccezione sempre più imbarazzante sul piano politico di Viktor Orbán. Il premier magiaro rappresenta un’incognita sempre meno tollerabile, come confermano alcune indiscrezioni di Politico.eu secondo cui Budapest è stata messa ai margini nel sistema di condivisione delle informazioni militari in possesso dei servizi di intelligence.
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Non era un Consiglio europeo semplice, e non solo per Giorgia Meloni. L’Italia non manderà soldati in Ucraina, non finché sia stato siglato un dettagliato accordo di pace con il sigillo di Stati Uniti, Russia, Ucraina e Unione Europea.
Non è una sorpresa che all’intesa trovata ieri a Bruxelles abbiano aderito senza riserve le forze della sinistra democratica. E neppure sorprende, purtroppo, che nel vertice delle forze socialiste, poco prima del Consiglio europeo, a trovarsi isolata sia stata Elly Schlein, segretaria della delegazione più numerosa del gruppo S&D. Ecco, lei, sì, isolata in Europa più di quanto Meloni non sia in Italia. Nei due anni di segreteria del Pd, Elly Schlein ha acquisito non pochi meriti agli occhi dei militanti, a ragione sicuramente dei risultati elettorali, confortanti in più di una circostanza e non del tutto deludenti in altre. Se non è roseo, il quadro del partito appare oggi meno fosco rispetto al momento del suo arrivo. Lo ha tirato fuori dal precipizio in cui era e questo le viene oggi riconosciuto anche da coloro che non avevano applaudito la sua elezione. Da qualche mese, inoltre, ha avuto l’accortezza, non scontata, di virare il suo discorso pubblico su quei temi – la sanità, la scuola, il salario minimo – rimasti un po’ in ombra nei primi tempi del suo mandato, quando lo spazio era assorbito dalle battaglie, a lei più care per formazione culturale e indole politica, sui diritti civili e sulle tutele delle minoranze.
La realtà bussa ora alla nostra porta, e a quella del Pd, con il tuono del cannone. La guerra in Ucraina ha riportato tutti noi nella dimensione tragica, quella in cui spesso si incarna la Storia. La guerra è quel metronomo che entra in funzione per scandire un cambio d’epoca, la fine di un mondo e l’ingresso in una stagione nuova, minacciosa e incombente come ogni novità partorita nei lutti e nel fragore delle armi. Il popolo ucraino è stato costretto dalla vigliacca aggressione di Vladimir Putin ad aprire la strada per tutti noi, europei e non solo, verso un mondo inesplorato in cui dobbiamo forzatamente inoltrarci. Per la ragione che sono franate antiche certezze, venuti meno riferimenti che sembravano consolidati come, faccio l’esempio non a caso, l’idea che mai gli Stati Uniti avrebbero trascurato la sicurezza dell’Europa e sempre sarebbero intervenuti contro qualsiasi minaccia ad essa. Donald Trump ci sta dicendo che è calato il sipario sul mondo di ieri. Anche in quello nuovo, che lui immagina in una luce distopica, potranno trovare posto valori come la fedeltà nelle alleanze o il mutuo soccorso nelle necessità. Con una clausola nuova: tutto avverrà dietro pagamento.
There is no such thing as a free lunch: non ci sono pasti gratis, insomma nessuno dà niente per niente, dice l’animo americano, e Trump ha scelto di farsene portavoce, omettendo le mille altre e più generose qualità di quell’animo. Questo è il tempo che ci è dato, avrebbe detto Aldo Moro, e questi i protagonisti con cui dobbiamo convivere. Schlein, non da sola, è vero, ha lamentato l’assenza di un’iniziativa diplomatica dell’Unione europea. Una leader politica, e Schlein ha dimostrato di esserlo, non ignora il precetto non scritto secondo il quale nessuna azione diplomatica può essere efficacemente dispiegata se non è accompagnata dalla forza dissuasiva delle armi, a meno di non ridurre la diplomazia a un esercizio retorico o a un’infervorata omelia sulle virtù della pace e sulle nefandezze della guerra. Poi, si sa: per fare la guerra è sufficiente la volontà di una sola parte, la pace bisogna volerla almeno in due. Provi Schlein a spiegarlo all’alleato che insegue a perdifiato. La democrazia e la libertà non sono beni disponibili in natura. Sono costruzioni umane, faticose e di secolare impegno, tirate su con rivoluzioni, insurrezioni e guerre. Come tali, sono beni preziosi e fragili e la politica è chiamata a un’incessante opera di manutenzione quotidiana. E sempre deve essere pronta, quando lo impongono circostanze che soverchiano la nostra volontà, a difendere la democrazia anche con le armi ove risultassero vane quelle della diplomazia.
Come principale partito di opposizione, il Pd è investito della responsabilità propria di una forza che aspira legittimamente al governo del Paese, senza scorciatoie o sotterfugi. Non è utile all’Italia, e si dubita che lo sia al Pd, avere un Parlamento diviso sulla questione vitale della pace e della guerra. Non basta una piazza, per grande che possa essere, a unire l’Europa. Sarà più utile per tutti prendere atto che non c’è un bivio a dividere la via della pace da quella della guerra. Camminano sulla stessa strada, da sempre. Per questo ogni esitazione può essere fatale per la democrazia.
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