Il progetto di Renzi, anche se non prevedeva elezioni dirette del presidente o del premier, proponendo di superare sia il bicameralismo perfetto sia il Titolo V, avrebbe rafforzato il governo centrale ed è stata quindi osteggiato in tutti i modi
Riusciranno a sorprenderci o sarà un altro fallimento annunciato il tentativo di fare le riforme istituzionali? Se lo chiede Panebianco nell’editoriale sul Corriere di stamani facendo seguire alcune risposte molto convincenti. Il succo è questo: la riforma del Titolo V e il taglio dei parlamentari non hanno incontrato forti resistenze perché entrambe andavano nella direzione dell’ulteriore indebolimento di un centro politico (governo e Parlamento), già di per sé tradizionalmente debole. Mentre quella di Renzi, anche se non prevedeva elezioni dirette del presidente o del premier, proponendo di superare sia il bicameralismo perfetto sia il Titolo V, avrebbe rafforzato il governo centrale ed è stata quindi osteggiata in tutti i modi. Contro di essa si schierarono infatti gruppi fra loro eterogenei, con in testa una parte della magistratura, che temono un rafforzamento del governo perché ciò indebolirebbe i loro poteri di veto sulla politica. Il risultato è che, a differenza della Prima Repubblica dove i partiti erano forti, ora ci ritroviamo con istituzioni di governo deboli – come vollero i Costituenti – e partiti altrettanto deboli, e questo ha rafforzato una serie di apparati (vertici amministrativi, magistrature di ogni ordine e tipo) che hanno un potere di interdizione e di veto nei confronti della politica rappresentativa. Ergo: le riforme sarebbero necessarie e urgenti, ma anche questa volta c’è il rischio concreto di un nulla di fatto.
L’opposizione, fatta eccezione per il Terzo Polo, ritiene che le priorità del Paese siano altre, ma l’instabilità dei governi è una vera e propria emergenza di sistema da cui Piero Calamandrei aveva lucidamente messo in guardia: “…Credete voi che si possa continuare a governare l’Italia con una struttura di governo parlamentare, come sarà quella proposta dal progetto della Costituzione…? Il governo parlamentare è un vecchio sistema che ha avuto sempre come presupposto l’esistenza di una maggioranza omogenea, fondamento di un governo stabile…”. Ma in caso di governi di coalizione, “allora bisognerà cercare strumenti costituzionali che corrispondano a questo diverso presupposto”. Per questo Calamandrei aveva proposto una Repubblica presidenziale “o perlomeno a un governo presidenziale”, osservando che di questo fondamentale problema della democrazia, cioè la stabilità del governo, nel progetto costituzionale non c’era quasi nulla”.
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E’ lo stesso ragionamento che la premier ha fatto incontrando le opposizioni: il nostro è un sistema caratterizzato da una fortissima instabilità che è alla base di molte criticità e indebolisce l’Italia anche all’estero, visto che ai summit internazionali il premier di turno viene sempre considerato un interlocutore provvisorio e quindi un’anatra zoppa. Negli ultimi venti anni noi abbiamo avuto dodici governi, la Francia quattro presidenti e la Germania tre cancellieri. Ma più un governo ha un orizzonte breve, più tenderà a dilatare la spesa corrente e a non fare investimenti strutturali” – ha detto Meloni – e “tutti sappiamo che gli investimenti hanno un moltiplicatore e la spesa corrente un altro”. Non a caso l’Italia è cresciuta molto meno di Francia e Germania. Ergo: c’è qualcosa che non funziona alla base del sistema, e questa è la ragione per cui le riforme istituzionali sono una priorità.
L’altra grande questione da affrontare è il solco che si è scavato tra politica e Paese, che ha portato un progressivo aumento dell’astensionismo, come si evince anche dai primi dati di affluenza di questa tornata amministrativa. Ebbene, le riforme dovrebbero restituire agli elettori la certezza che il loro voto conta e non viene utilizzato per alimentare il trasformismo. In gioco ci sono la stabilità e la qualità stessa della nostra democrazia.
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