L’abuso d’ufficio paralizza l’Italia: ecco perché la riforma della giustizia è fondamentale

Giulia Fuselli
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Perché la riforma della giustizia sull’abuso d’ufficio è così fondamentale? La manovra che paralizza la firma dei pubblici amministratori

Il primo pacchetto di riforme della giustizia che il ministro Nordio porta oggi in consiglio dei ministri è sicuramente un buon inizio: si pone infatti mano all’abuso d’ufficio che paralizza la firma dei pubblici amministratori, al traffico di influenze, all’uso abnorme delle intercettazioni, a un surplus di garanzie a tutela dei diritti degli indagati, con l’idea di un collegio di gip per decidere sulla custodia in carcere. Ma è chiaro che se davvero si vuol portare a termine una riforma nel solco dell’eredità politica di Silvio Berlusconi bisognerà anche affrontare, ovviamente coi tempi del dettato costituzionale, anche veri e propri tabù come la separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale, usbergo dietro il quale si è affermato nel tempo il massimo della discrezionalità da parte delle procure. Il fuoco di sbarramento da parte di Anm e sinistra è partito prima ancora del varo della riforma, e la battaglia – parlamentare e non solo – si annuncia dunque durissima.

Concentriamoci intanto sull’abuso d’ufficio, e cerchiamo di spiegare perché la linea Nordio è corretta. L’articolo 323 del codice penale è da almeno un ventennio il tormento di sindaci, amministratori locali, presidenti di Regione e semplici funzionari che periodicamente finiscono nelle maglie dell’abuso d’ufficio: violazione che ha colpito in ugual modo amministratori di destra e di sinistra.

Basta leggere l’articolo testuale per rendersi conto di quanto sia vago e lasci al giudice uno spazio smisurato di interpretazione. Incorre nell’abuso d’ufficio “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto”. Qualsiasi atto amministrativo dunque, da una multa cestinata in su, rischia di essere visto come una violazione di legge, col risultato che il timore dell’abuso d’ufficio spesso finisce per bloccare la mano ai sindaci nel momento di firmare qualsiasi provvedimento.

Dal 2008 al 219, sono stati 150 i pubblici ufficiali condannati per questa fattispecie di reato, ma si sono registrate molte più assoluzioni, arrivate quasi sempre dopo un decennio, ma nel frattempo – a causa della legge Severino – sono andati a casa sindaci eletti anche da poco, con un chiaro sfregio alla volontà popolare. Emblematico il caso dell’ex sindaco di Novara Giordano, il cui presunto “interesse personale” era consistito del non aver preso provvedimenti nei confronti di un bar da cui provenivano schiamazzi notturni i. O quello della sindaca indagata perché una bimba si era ferita all’asilo a causa di una riparazione non fatta. L’Anci chiede da anni almeno una riformulazione del reato, visto che a fronte della valanga di assoluzioni l’impatto sulla vita degli amministratori ingiustamente accusati è devastante.

La Cassazione ha cercato di fare chiarezza scrivendo che perché sia ravvisabile l’abuso d’ufficio deve essere provata l’intenzionalità, e tre anni fa il Parlamento ha varato una mini-riforma, ma la situazione non è affatto migliorata: la roulette giudiziaria ha continuato a girare.

Il viceministro Sisto ha spiegato oggi che l’abolizione dell’abuso d’ufficio è strettamente collegata col giusto processo, perché si ribalta la presunzione di sospetto nelle pubbliche amministrazioni ripristinando il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Gli amministratori devono poter agire correttamente senza la paura di finire sotto processo. Si toglie di mezzo una norma dannosa oltre che inutile che è dispendiosa e produce risultati minimi o insignificanti: 18 condanne nell’ultimo anno a fronte di oltre cinquemila procedimenti avviati. Insomma: se l’abuso d’ufficio produce migliaia di procedimenti che finiscono nel nulla provocando il danno politico di distruggere carriere e reputazioni, quel reato va semplicemente cancellato.

La principale obiezione che arriva dalla magistratura è che l’abuso d’ufficio sarebbe un “reato spia” della corruzione, ma i dati del ministero dimostrano che questo reato ormai non costituisce più alcuna barriera contro la corruzione, ma penalizza condotte che poi si rivelano del tutto lecite, bloccando contestualmente l’economia del Paese e il corretto rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione. L’esperienza degli ultimi anni insegna che sindaci e dirigenti vivono nel terrore di incappare in un reato pericolosamente vago, finendo troppo spesso indagati per atti compiuti solo adempiendo al proprio dovere.

Per concludere, i numeri che seguono dovrebbero spegnere definitivamente le polemiche: di 5418 procedimenti aperti, 4622 si sono chiusi nell’ufficio del giudice delle indagini preliminari con nove condanne e 4613 archiviazioni. Le restanti inchieste approdate in tribunale si sono concluse con diciotto condanne e 35 patteggiamenti. Si arriva così a 62 colpevoli su 5418, ossia 1,1 per cento di condanne e 98,9 di assoluzioni. Per il presidente dell’Anm l’infinitesima percentuale di condanne è il segno che il reato non va abolito. Ma il buonsenso dice esattamente il contrario.

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