Nella prima serata del Festival, Ferragni è inconsistente: recita un ruolo ancillare in cui le battaglie femministe funzionano solo come vetrina di sé
Chiara Ferragni è la prima velina dell’Amadeus quater. Per recitare questo ruolo, si è rivelata comunque perfetta: una vagina-dotata bianchissima, biondissima, privilegiatissima, abile nella mercificazione di sé e con un team di ghostwriter sciocchini pronti a scrivere una letterina per riempire uno spazio che non poteva essere dato ancora una volta a ultrasettantenni.
Il brand Chiara Ferragni
Le comparsate di quella che chiamiamo imprenditrice digitale deludono chi riponeva ancora qualche speranza in Sanremo e nel personaggio, ma, d’altronde, aspettarsi qualcosa dirompente dal Festival è inutile tanto quanto aspettarsi buona musica. Ferragni a Sanremo si sente come nell’ennesima, inutile storia Instagram che skipperemo: l’esposizione di sé è maniacale, le sue parole un chiccirichì sui toni dell’io.
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Il monologo della donna piangente, il topos cui il Festival ci ha abituato – quel momento della serata in cui si pesca a caso un tema sociale di genere e lo si banalizza – è, in realtà, un selfie. Una lettera letta con voce fintamente rotta scritta da Chiara Ferragni per Chiara Ferragni è l’apoteosi della brandizzazione. Non vi è alcuna volontà di rendere il proprio messaggio universale, o vagamente immedesimabile e il risultato è una recita alquanto naive.
Femminismo liberal e confuso
L’ex Blonde Salad non ha ben compreso l’adagio del femminismo degli anni Settanta, quel momento straordinario nella Storia in cui si costituiva una nuova soggettività politica delle donne: la Donna come Soggetto collettivo. Il personale è politico, se e solo se ha la forza di rompere i confini di sé e della propria storia. Parlare di sé, in senso femminista, ha senso se c’è volontà di costruire un legame collettivo, e non come atto individuale e razionale. Quello che dice è invece un pasticcio, figlio di un femminismo iper-semplificato, tutto lustrini e fiocchi rosa, mediatico, mellifluo e fatto di slogan e scritte, che non riescono a valicare il confine della sua immagine. Il sottotesto è “se vuoi, puoi”, un neoliberismo scatenatissimo che Ferragni non ha mai messo in dubbio. In superficie, c’è un concerto di già-detti e di banalità che non avrebbero avuto consistenza neanche se infilati nella caption di Instagram.
Ferragni porta avanti una confusa lotta al signor Patriarcato a suon di storie e sponsor: piuttosto che autodeterminazione, sul suo profilo, che combacia perfettamente con la sua vita a tutto tondo, c’è una spasmodica vetrinizzazione di sé. In Chiara Ferragni non c’è dissidio, non c’è coraggio, non c’è azione. C’è tutto fuorché femminismo. L’unico merito che ha, o ha avuto, è l’aver reso notiziabili, più che visibili, alcune istanze sociali che però resistono solo il tempo di una storia.
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