Elon Musk, Raffaele Fitto e il conformismo dei benpensanti. Due fatti, contemporanei, ma slegati. Eppure, legatissimi.
Da un lato un plutocrate, l’uomo più ricco della Storia insieme a Creso, che sul suo personalissimo giornalino fa sapere il suo personalissimo pensiero sui giudici italiani. Dall’altro un uomo di governo, di lunga esperienza, che affronta un difficile confronto dinanzi al Parlamento europeo in un inglese stentato, mal pronunciato e scolastico.
Un unico scandalo benpensante segue ai due episodi. Elon Musk non può permettersi di ficcare il suo sporco naso yankee negli affari di casa nostra e Raffaele Fitto (che vergogna, buu buuu buuu) non può permettersi di pronunciare male l’inglese dinanzi all’europarlamento.
Leggi Anche
Il presidente della Repubblica, uso a obbedir tacendo, rompe il silenzio: difende l’Italia dallo straniero che “è in procinto di assurgere a ruoli di governo di un paese amico” e gli intima il silenzio. La (il?) presidente del Consiglio dei ministri plaude (e volevo vedere che ti permettevi di dissentire!) al messaggio piccato di Sergio Mattarella. Nel frattempo, un coro unanime di italiani, dalle opposizioni ai quisque de populo, percula Fitto.
Quale è il filo di lenza, trasparente e fortissimo, che unisce questi due fatti? La completa mancanza di visione. Di prospettiva. Un’incapacità colossale e drammatica di cogliere lo spirito di un tempo in cui il dibattito politico è diventato mondiale. In cui è perfettamente normale che un soggetto che fa politica si inserisca fisiologicamente in un flusso di idee, opinioni e dialoghi, da una sponda a quell’altra dell’Atlantico. Per cui se Mr. Musk vuole esprimere il suo parere sui giudici italiani, lo fa con legittimità e serenità. Così come prima di lui hanno fatto diversi membri di diversi nostri governi, criticando Macron o Boris Johnson o oggi Zelensky o Netanyahu. E lo hanno fatto utilizzando il nostro idioma nazionale o la neolingua veicolare. Quell’inglisc badspoken che è il più normale strumento utilizzato da quelli che vogliono comunicare nel mondo e non mostrare di aver studiato a Eton. Da Baku a Città del Capo, da Vladivostok a Kuala Lumpur. Perché nessuno si sogna di rimproverare ai mille Don Lurio che ospitiamo nei nostri talk-show l’italiano con accento di Stanlio? Perché non si pensa a stigmatizzare l’accento dell’inglese degli scozzesi, dei gallesi, dei californiani? O perché non rimproverare a La Russa di presiedere il Senato con una (per qualcuno) insopportabile cadenza di Paternò?
Il mondo è diventato -grazie a Dio- una grande comunità interdipendente. Chiunque ha diritto di dire le sue castronerie, ognuno di non ascoltarle. Ciascuno può parlare la sua lingua e non deve vergognarsi del suo accento. Chi non ha diritto di cittadinanza, invece, è chi la cittadinanza del mondo la nega, ancora formando comunità chiuse e pronte a discriminare, puntare il dito giudicante e dividere tra buoni e cattivi, tra chi può e chi non può. Parlare, criticare, esprimere. La lingua del futuro sia la libertà e il dito puntato, provinciale e inquisitore può andare, serenamente, altrove.
© Riproduzione riservata