Harris si aggiudica lo sprint ma da qui a novembre deve correre una maratona

Nel clan di Trump regna ancora lo smarrimento. La campagna elettorale impostata per vincere contro Biden va ripensata completamente contro un’avversaria di 20 anni più giovane, tenace e determinata, pungente e ironica. Come si vede dai primi manifesti affissi a Las Vegas in cui mette alla berlina Trump e Vance: sotto la foto sua e di Tim Walz la scritta “Lottando con voi”, sotto il faccione di Trump e Vance la scritta: “Candidati per noi stessi”

Jean-François Paul de Gondi
8 Min di lettura

È un sano bagno di realismo quello fatto domenica sera, a San Francisco, da Kamala Harris. Una serata organizzata per lei da Nancy Pelosi, vera zarina del partito Democratico, per raccogliere fondi in vista della convention di Ferragosto. E l’obiettivo è stato centrato: 12 milioni di dollari al termine di tre ore fra discorsi di presentazione, qualche intermezzo musicale, e tante battute. Il repertorio di Kamala Harris sembra ben fornito, a giudicare anche dalle prime affissioni di manifesti. Le prime affissioni sono previste a Las Vegas, in Nevada. Secondo un’esclusiva del sito Axios, la Commissione nazionale democratica pianifica di cominciare con 80 manifesti, sia in inglese che in spagnolo, nelle aree metropolitane degli Stati chiave. Tra questi Arizona, Georgia, Michigan, Carolina del Nord, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin. Le città interessate includono Pittsburgh, Phoenix, Milwaukee, Asheville e Grand Rapids.

Gli spin della comunicazione hanno pensato bene di mettere alla berlina gli avversari: sotto la foto di Harris e del suo running mate Tim Walz la scritta “Lottando con voi”; sotto il faccione di Trump e Vance la scritta: “Candidati per noi stessi”. Il messaggio è efficace e non privo di una sua sofisticatezza. Ai supporter che l’hanno accolta esultanti a San Francisco, Kamala Harris si è rivolta con parole equilibrate in cui ha mescolato orgoglio e prudenza. “Abbiamo avuto un paio di settimane veramente buone, ma abbiamo ancora molto lavoro da fare”, ha detto pensando a coloro che ritengono acquisito il risultato.

La candidata democratica non si è tirata indietro e ha ricordato che dalla sua discesa in campo, il 21 luglio, ha rovesciato le sorti di una campagna elettorale che sembrava già definitivamente compromessa e vinta da Donald Trump. I giochi si sono riaperti in modo inaspettato se è vero che nel giro di ore Trump, da preda, si è ritrovato nel ruolo di inseguitore. Harris non ha lanciato acqua fredda sull’entusiasmo dei suoi sostenitori, e generosi finanziatori. Sarebbe un errore inconcepibile, a poche ore dalla convention democratica, mostrare segni di una qualche preoccupazione per la sfida del 5 novembre. Li ha però esortati a tenere vivo l’entusiasmo di queste giornate e a incrementare il loro impegno da qui al voto di novembre. Dare per acquisita la vittoria potrebbe essere un errore fatale.

Trump e il suo staff  devono ancora uscire dall’angolo in cui si sono ritrovati il 21 luglio quando con il cambio repentino, ma non più inatteso, dei candidati democratici sono state stravolte le fondamenta della campagna elettorale dei repubblicani. Trump, scrive oggi il New York Times, mostra segni di crescente nervosismo. Prova sarebbe l’accusa rivolta a Kamala Harris di utilizzare l’AI per costruire i video in cui si vede lei salutata da una folla enorme di sostenitori, al suo arrivo in aeroporto o nei comizi all’aperto. L’accusa ovviamente non sta in piedi quando dai video si passa alle immagini raccolte autonomamente dalle principali reti televisive, e si scopre che vi appaiono le stesse folle dei video prodotti dallo staff di Harris.

L’accusa e la conseguente gaffe di Trump non sono fatti gravi in se, segnalano semmai, come fa un termometro attendibile, la misura un certo affanno nell’inseguire una candidata ancora da conoscere nei suoi punti deboli e sorretta fin qui nelle sue ambizioni presidenziali dalla novità di essere una donna, di colore, la cui immagine non è facilmente associabile a quelle élites contro cui Trump avrebbe partita facile, come la ebbe nel 2016. E i sondaggi, quelli condotti fra il 5 e il 10 agosto, con il poll realizzato da New York Times e Siena College, danno Harris in testa, con il 50% contro il 46%, negli stati chiave di Wisconsin, Pennsylvania e Michigan, cioè in quegli Stati che nel 2016 si tinsero del rosso repubblicano portando in trionfo Trump. Gli stessi sondaggi hanno mostrato anche il maggior vantaggio di cui gode il tycoon in materia di immigrazione e sulle questioni economiche.

Harris e Walz sanno di avere davanti a loro una montagna da scalare. La rinuncia di Biden è poco più che un avvicinamento al percorso ripido che li attende. È probabile, come suggerisce lo staff di Trump, che il favore dei sondaggi per Harris rallenterà una volta chiusa la convention democratica e allora dovrebbe iniziare un’altra partita. Harris ha scelto Tim Walz come running mate ben conoscendo la sua biografia politica. Si tratta di un governatore, già deputato al Congresso al tempo della prima presidenza Obama, favorevole all’aborto e al riconoscimento dei diritti delle comunità Lgbtq+. Walz dà voce all’ala liberal e radicale dei democratici, anche se in politica estera viene descritto come un continuista rispetto alla visione bipartisan su cui l’America si è ritrovata dal 1952.

Sarà pur vero che Harris dispone di grande forza personale e di “acume politico”, come l’ha presentata Nancy Pelosi alla cena di domenica sera. Si tratta di capire quali percorsi vorrà intraprendere sul terreno scivoloso del fisco e delle politiche ambientali: sull’ambiente, si sa, Trump annuncerà una nuova uscita degli Stati Uniti dall’accordo Cop20 di Parigi. Harris, come è nella tradizione democratica, proverà a incitare gli elettori a uno “sguardo lungo” sul destino del Paese, lasciando a Trump il vantaggio di promettere risultati immediati con un taglio di tasse, cessazione immediata dei vincoli ambientali e un aggiustamento incisivo in politica estera, soprattutto sui campi di battaglia in Ucraina e a Gaza. Sono terreni insidiosi per Harris e Walz. Si tratta, per i democratici, di operare un grande reset nelle aspettative degli elettori.

Spiegare agli americani che fare di nuovo grande il loro Paese non è opera da realizzare in pochi mesi ma un lavoro da impostare almeno nell’arco di un mandato non è un’impresa facile. Spiegare che rendere il mondo un posto migliore significa accollarsi la tutela della libertà di quei popoli che rischiano di perderla ad opera di “Stati canaglia” come la Russia, l’Iran, la Corea del Nord e la Cina è un messaggio complicato da recapitare a un’opinione pubblica confusa e smarrita. Chi invece sembra avere le idee chiare sulla posta in gioco al voto di novembre sono i Paesi europei. Tanto netta e fragorosa è la distanza fra la visione americanocentrica di Trump e quella globalista di Harris che a Parigi come a Berlino o a Londra non hanno incertezze su quale sia preferibile. A Roma, non troppo paradossalmente, Trump ha i suoi maggiori supporter, in maggioranza e all’opposizione.

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