Kamala avanti, adagio dopo l’entusiasmo di Chigago ora i conti con la realtà

Spente le luci del United Center di Chigago, la candidata democratica deve diradare la nebbia che ancora incombe su alcune parti del programma. Il capitolo delle tasse, con la promessa di raccogliere 5 trilioni di dollari in dieci anni aumentando le aliquote sui patrimoni più ricchi e alle grandi aziende, rimane il più spinoso. La politica estera è il terreno a lei più favorevole

Jean-François Paul de Gondi
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Le luci e i mille colori del United Center di Chigago raccontano meglio di qualunque discorso quel che Kamala Harris ha in mente per l’America. Quella luci e quei colori sono di un Paese la cui ricchezza e prosperità si fonda sulla società più multietnica presente sulla Terra. Multietnica decisamente e solo blandamente multiculturale, perché lo “spirito della frontiera” non ammette deroghe all’american way of life. Americani si diventa e una volta diventati è impossibile smettere di esserlo. Kamala si è confermata per quello che a tutti è apparsa dal giorno della sua investitura da parte di Jo Biden: una donna energica ed energetica, ha chiaro quello che vuole fare, più vago rimane il modo e i mezzi che metterà in campo per raggiungere obiettivi tanto ambiziosi.

Ricostruire il ceto medio, cioè il segmento sociale fatto a pezzi da trent’anni di globalizzazione, è uno dei suoi obiettivi, anzi quello prioritario nell’agenda di Harris. E già qui si apre una questione cruciale, perché si tratta di un obiettivo che anche Donald Trump promette di raggiungere. Con una diversità radicale delle ricette. La candidata democratica ha in animo un aumento delle pressione fiscale sui ceti ricchi e sulle grandi società della corporate America. Si tratta di raccogliere 5 trilioni di dollari (cioè cinquemila miliardi) in dieci anni da redistribuire per rinsanguare i redditi depressi del ceto medio. Opposta a questa è la ricetta trumpiana: abbassare le tasse al ceto medio si può, in debito, ma rilanciando la guerra commerciale senza sconti a Cina ed Europa. Come? Sfogliando un catalogo assortito di dazi doganali, dall’acciaio contro l’Europa, alle tecnologie per penalizzare i prodotti Made in China.

La via trumpiana per ricostituire il benessere dell’americano medio non offre alternative, punta tutto sulle barriere doganali e fa di questa la chiave di volta per rilanciare l’economia interna, soprattutto quei settori, come l’agricoltura, il tessile o il tecnologico più danneggiati dalla concorrenza spietata di Pechino. La storia è ricca di troppi, drammatici esempi di come una guerra commerciale sia sempre il preludio alla guerra tout court.

Tutto si tiene nella strategia politica di un partito e a maggior ragione nell’interpretazione che intende darne il candidato alla presidenza. Della politica fiscale come di quella commerciale, la sintesi si trova nella politica estera dell’America. È significativo sotto questo punto di vista un lungo saggio apparso sul numero di agosto di Foreign Affairs e firmato da Condoleezza Rice, già segretario di Stato con George W. Bush jr. Mai come in questo caso il senso dell’analisi è sintetizzato perfettamente nel titolo: “Il rischio dell’isolazionismo. Il mondo ha ancora bisogno dell’America e l’America ha ancora bisogno del mondo”. È utile ricordare che Rice è un’esponente autorevole del mondo conservatore e il suo giudizio è l’ennesima bocciatura della candidatura di Donald Trump, dopo quella di John Bolton, che pure è stato collaboratore di Trump.

L’isolazionismo è la condizione in cui verrebbe a trovarsi l’America nel caso di una vittoria di The Donald. Il teorizzatore del MAGA (Make America great again) immagina la Nazione in ritirata da ogni angolo del pianeta, lontana dal ruolo scomodo (e costoso) di garante della libertà e della democrazia per conto terzi. Tanto Harris è pronta a continuare e, se necessario, potenziare il sostegno all’Ucraina, tanto Trump sarebbe pronto a chiudere la partita, come ha promesso, in 24 ore. In che modo e a quali prezzi non è stato mai specificato. Tanto Harris considera di vitale importanza il ruolo della Nato e i vincoli di solidarietà politica e di sicurezza che ne conseguono, tanto Trump è pronto a gettare alle ortiche, per ragioni economiche ma non solo, l’alleanza che ha garantito gli equilibri geopolitici dal 1949.

Si tratta, con ogni evidenza, di differenze sostanziali, di due visioni del mondo, e del ruolo che in esso deve svolgere l’America, inconciliabili e irriducibili a sintesi. Dopo il passo indietro di Biden, Harris ha riaperto la competizione che sembrava scontata a favore di Trump. Ma sarebbe ingenuo ritenere chiusa la partita contro il movimento trumpiano. Il tycoon è in difficoltà e in ritardo nel riposizionarsi sul piano politico. Questo non significa che non abbia ancora buone carte da giocare, se solo saprà ripulire la propaganda da qualche tono becero e volgarotto che non porta consensi ma, al contrario, è la spia di chi è in confusione e teme la forza dell’avversaria. Trump promette di tagliare le tasse ai ceti impoveriti dalla globalizzazione, senza aumentarle ai ricchi, quindi con più debito pubblico. Harris promette di aumentarle ai ricchi per trasformare il maggior gettito fiscale in nuovi sussidi sociali alle famiglie e in sostegno allo studio e alle cure mediche. Due alternative che più nitide non potrebbero essere. Harris parla al disagio dei ceti urbani, Trump alimenta le aspettative dell’America country. Il 5 novembre è ancora lontano.

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