Israele può trattare con Hamas solo dopo averlo sconfitto militarmente, Analogie e discordanze, dal teatro Dubrovka alla scuola di Beslan

Le opinioni pubbliche in democrazia esercitano il diritto all’emotività, merce venduta a buon mercato dalle organizzazioni terroristiche. Tutti spingono Israele a ridurre la pressione militare su Gaza, costata finora quasi 30 mila “civili” morti: civili che convivono con i terroristi e terroristi che si rifugiano in ospedali, uffici, scuole e perfino Chiese. Israele non può trattare con Hamas senza azzoppare la propria sovranità statuale: gli ostaggi vanno liberati senza condizioni. Due popoli, due Stati: una formula retorica e vuota. Hamas, Iran, Qatar e tutto l’Islam vogliono solo cancellare uno Stato, non sanno che farsene della Palestina

Jean-François Paul de Gondi
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Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, indossa volentieri la kefiah palestinese quando le circostanze lo impongono. È il rappresentante più alto in grado del Vaticano nella martoriata terra di Israele, Terra Santa per i cattolici, Palestina per buona parte del mondo islamico e Israele per chi vi abita o vi è cordialmente accolto. Pizzaballa, nel 2020, è stato promotore di un laboratorio per la produzione di ostie nella parrocchia di Gaza e dopo il pogrom del 7 ottobre ha ipotizzato di offrirsi come ostaggio ad Hamas in cambio della liberazione dei bambini israeliani.

Lui è l’interprete della strategia politica del Vaticano perciò i suoi appelli a un “cessate il fuoco” sono l’eco degli appelli del Papa. Qui finisce il ruolo della Chiesa, sempre più vox clamans in deserto, oggi in Israele, ieri in Ucraina. A Israele si può chiedere di allentare la pressione militare, di evitare ogni accanimento sui civili, di risparmiare ospedali e scuole: in sostanza di non dare la caccia agli autori del pogrom che si nascondono fra i civili, hanno basi militari nelle scuole, negli ospedali, negli uffici per sfidare così i militari con la stella di David a sparare dove non dovrebbero secondo i pensieri puliti e pettinati di europei e americani.

Come può uno Stato democratico negoziare la liberazione di suoi cittadini sequestrati da terroristi che vogliono la sua distruzione, senza compromettere la propria autorità e autorevolezza? Salvare una vita è salvare il mondo, d’accordo, e la frase farà sempre il suo bell’effetto nell’incarto dei Baci Perugina. Ma distruggere uno Stato quante vite può costare? Lo Stato italiano, nella primavera del 1978, rifiutò, dopo un dibattito che lacerò i rapporti fra i partiti e non poche coscienze, di intavolare una qualsiasi trattativa con le Brigate Rosse per ottenere la liberazione del presidente Aldo Moro.

Il 3 settembre 2004 a Beslan, città dell’Ossezia del Nord, repubblica della Federazione Russa, le forze speciali fecero irruzione nella scuola N.1 dove 32 terroristi, fondamentalisti islamici e separatisti ceceni, avevano sequestrato 1200 bambini. L’azione provocò la morte di circa 300 persone, fra cui 186 bambini, e 700 feriti. Vladimir Putin aveva deciso che con i terroristi non si doveva trattare.

Due anni prima, nel 2002, dopo un assedio durato oltre due giorni, le forze speciali russe Specnaz passarono all’azione per liberare circa 850 spettatori del teatro Dubrovka, a Mosca. Pomparono un misterioso agente chimico (come si vede, Putin predilige la chimica per far fuori ogni tipo di avversario) all’interno del sistema di ventilazione dell’edificio, provocando la morte di 129 ostaggi e di 39 combattenti ceceni e facendo poi irruzione. Altre stime portarono invece la morte dei civili ad un numero superiore alle 200 unità proprio dovute all’irroramento del Fentanyl (potente analgesico oppioide sintetico) o del gas nervino.

Neutralizzare i terroristi, anche rischiando la vita di civili innocenti, non è una scellerata prerogativa degli Stati autoritari, e la Russia è uno stato autoritario. È una terribile, orrenda ma ineluttabile necessità di ogni comunità che si sia costituita in Stato e in tale condizione giuridica voglia conservarsi. A Israele non si chiede di trattare con un altro Stato (cosa che è stata resa possibile quando, siglando gli accordi di Abramo, Israele ha ripristinato le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein). Si chiede a Benjamin Netanhyau di avviare una trattativa con un’organizzazione la cui unica ragione per esistere è la distruzione dello Stato che Netanyhau rappresenta. Al premier israeliano si possono imputare mille altre colpe (non aver fermato la politica del settlement nell’area compresa fra Gaza e Cisgiordania; o la pretesa, implementando unilateralmente gli accordi di Abramo, di esercitare l’autorità amministrativa su oltre il 30% della Cisgiordania) ma non si può rimproverargli di voler sconfiggere militarmente Hamas: è un dovere per un primo ministro tutelare con ogni mezzo la sicurezza e l’incolumità dei propri concittadini. Venendo meno a questo compito Netanyhau tradirebbe il suo ufficio e le sue funzioni e allora dovrebbe dimettersi per indegnità.

 Al dolore per le atrocità patite il 7 ottobre, Israele ha visto aggiungersi in questi mesi l’amarezza e lo sconcerto per il crescente isolamento nella comunità internazionale e per il sostegno tiepido quando non ambiguo dell’Unione europea, impegnata in un goffo equilibrismo fra le ragioni di Israele e le critiche per le sue reazioni. Non può esistere un ruolo europeo in quell’area finché l’Unione europea non avrà chiarito a se stessa quali sono gli obiettivi realisticamente perseguibili. Una politica estera europea in Medio Oriente non può partire se non da un assunto: l’esistenza di Israele, la sua sicurezza e il diritto a vivere in pace sono una priorità indiscutibile. Tutto il resto può seguire.

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