Imane Khelif, la scienza non può sostituirsi all’etica: così Meloni diventa paladina del femminismo

L’ideologia woke, braccio armato dell’inclusività, si è ritrovata di fronte a una delle mille contraddizioni con la vicenda di Imane Khelif. La boxeuse algerina è una donna, così è registrata all’anagrafe del suo Paese. Per alcuni versi è anche un uomo, per altri ancora è entrambi. Non è una transgender (in un Paese islamico? Chi lo pensa non sa che cosa è l’Islam). Ha livelli di testosterone incompatibili con il suo genere. Il dilemma: se non è una donna, è un uomo? E se non è neppure un uomo come si può garantire il suo diritto a praticare lo sport? Meloni ha posto un problema rilevante: esiste ancora la “differenza” di genere, principio fondante del femminismo moderno?

Jean-François Paul de Gondi
6 Min di lettura

Imane Khalef è una donna, così è registrata in Algeria, suo Paese d’origine. Non è una transgender, perché esserlo, in un Paese islamico, costerebbe quanto meno la lapidazione. È una donna e, per certi versi, è anche un uomo. Per altri ancora è entrambe le cose. È un’iperandrogina, dice la sua carica di testosterone, il che equivale a dire che dispone di un indice di potenza muscolare superiore a quello che potrebbe esprimere un corpo femminile. Quindi è nel campo maschile che dovrebbe gareggiare? Perché se è la carica di testosterone a stabilire il genere di appartenenza non ci sono dubbi. Ma lei è una donna. Si deve immaginare una nuova categoria sportiva in cui far gareggiare i gender fluid?

L’ideologia woke, braccio armato della teoria che fa dell’inclusività il nuovo dogma sociale, nel caso della boxeuse algerina si trova di fronte ai suoi limiti. Khelif ha il diritto di praticare uno sport, da ciò consegue il suo diritto a gareggiare salvo che i regolamenti sono in contrasto tra loro. Due anni fa è stata esclusa dal Campionato mondiale di box proprio a causa del livello troppo elevato di testosterone. A Parigi, invece, con lo stesso livello è stata ammessa alle gare.

Inclusività e asterischi non possono eliminare la donna, questa storia del linguaggio è sfuggita di mano”, disse un anno fa, intervistata dal Foglio, Anna Paola Concia, militante per i diritti degli omo e transessuali. Un anno dopo torna sullo stessa tema per deplorare la polarizzazione politica provocata dalla vicenda di Imane Khelif. Non si tratta tanto delle battutacce di un Salvini, che lasciano il tempo che trovano, quanto delle argomentazioni seriose, sparse con l’indice sempre alzato, di esponenti della sinistra mai abbastanza paghi dell’ortodossia del “politicamente corretto”. Khelif è una donna iperandrogina perché è nata così oppure perché la sua femminilità è stata deturpata dall’abuso di cure ormonali per migliorare la sua potenza fisica? Esclusa la seconda ipotesi, rimane sul campo l’anomalia di un’atleta-virago la cui forza fisica è un oltraggio al “principio di equità”, giustamente evocato dalla presidente Meloni.

Giusto il principio, complessa e sfidante è la sua applicazione. Khelif è nata con un livello di testosterone anomalo e con cromosomi maschili. Non ha acquisito la sua identità a seguito di un intervento chirurgico per “transitare” da un sesso all’altro. Rimane, sempre, il punto di fondo: se non deve considerarsi una donna e neppure un uomo, altrettanto certo è che non può essere considerata un transgender. Imane Khelif diventa, con la sua presenza sul ring, la negazione di quel principio fondante del femminismo storico, quello che negli anni Settanta del Novecento aveva puntato sulla valorizzazione della “differenza” sessuale come base di ogni rivendicazione in tema di diritti civili. L’annientamento di ogni “differenza” in nome dell’inclusività è la più seria minaccia ai non pochi diritti conquistati in questi anni.

La vicenda Khelif può essere utilmente affrontata se detrattori e sostenitori della boxeseuse algerina sapranno uscire dagli schemi delle rispettive ideologie per confrontarsi su un terreno più concreto. Su questo terreno si incontra una prima grande sfida: esiste ancora da qualche parte una forma di “etica civile” in grado di cogliere le “differenze” per valorizzarle e farne ragione di un nuovo rispetto? Essere inclusivi non significa nulla. Quando è notte, ammoniva Hegel, tutte le vacche sono nere e oggi l’inclusività rischia di portare alla notte dei diritti o di generare, in nome dei diritti, una nuova uniformità e un conformismo urticante con ciò abbassando il livello della libertà della persona che si dice di voler accrescere.

Non credo che le Olimpiadi parigine siano la manifestazione di un Occidente pseudo-liberale e vittima di perversione: queste cose le pensa Dmitri Peskov, portavoce di Putin, e maestro di manipolazione delle notizie e di fake-news. Penso, invece, che l’Occidente stia perdendo terreno nella ridefinizione di un’etica civile o che la ritenga superflua di fronte all’onda travolgente dell’inclusività. Significa ripetere lo stesso fatale errore, denunciato da Tvetan Todorov, del positivismo allorché si riteneva che di fronte a una verità scientifica perdeva ogni significato la dimensione etica.

Se una cosa era scientificamente valida si riteneva per questo eticamente accettabile: da questo equivoco, sono nate le più feroci dittature del XX secolo. Accettare l’idea che la scienza possa sostituirsi alla morale se non addirittura ricomprenderla nelle sue evidenze, rischia di riportare l’Occidente a ridosso degli orrori del XX secolo.

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