Il limite di mandati, un’ipocrisia che ha ucciso la politica

L’Italia è il solo Paese europeo che ha introdotto il limite di mandati per sindaci e presidenti di Regione. È un danno enorme per la cosa pubblica. Tutto è iniziato con Berlusconi (“basta con i professionisti della politica” tuonava ai tempi di Tangentopoli) e proseguito con Grillo. La politica è una professione e ogni autentico politico vi dedica la vita. Nessuno mai si è chiesto di che cosa hanno vissuto o vivono Kohl, Merkel, Giscard, Aznar, Thatcher, Biden, Mitterrand, Sanchez, Meloni: hanno vissuto o vivono dell’attività politica. Senza i professionisti, la politica finisce nelle mani di dilettanti

Jean-François Paul de Gondi
6 Min di lettura

Le polemiche roventi di questi giorni sul terzo mandato dei sindaci e dei presidenti di Regione hanno un profilo che va oltre il piccolo tornaconto di Salvini o i calcoli di bottega di Schlein. Esse investono un tema più generale che si può riassumere così: è utile per un Comune o per una Regione mandare a casa il sindaco o il governatore o il deputato o il senatore se questi hanno ben meritato e godono del sostegno degli elettori? I partiti, si è visto, si azzuffano al loro interno (si veda la rivolta neanche tanto silenziosa nel Pd) e fra alleati (Salvini e Meloni) ma più per i calcoli politici intorno al limite di mandati che non per la sostanza vera della questione.

L’assedio alla politica e la sua condanna come strumento di corruzione dura in Italia dall’epoca di Tangentopoli. Tutte le forze politiche (tranne il PCI) finirono alla sbarra a causa di quell’aberrazione giuridica per cui la responsabilità penale individuale venne sostituita da una responsabilità penale di sistema. Non venivano processati Mario Rossi o Giuseppe Bianchi, ma partiti interi venivano giudicati. La condanna emessa contro il sistema politico poteva essere eseguita soltanto dagli elettori non potendo arrestare la Dc, il Psi, il Pri o il Pli.

Sull’onda di quello tsunami che fu Tangentopoli seppe issarsi Silvio Berlusconi, più lesto dei suoi avversari a cavalcare le indagine di indignazione e di rabbia popolare contro la politica. “Basta con i professionisti della politica”, tuonò Berlusconi. Pochi ebbero il coraggio di chiedersi: fuori i professionisti non significa forse avanti i dilettanti? E i dilettanti, digiuni di esperienza giuridica, di diritto parlamentare e amministrativo, quanto tempo impiegheranno a prendere almeno confidenza con la macchina dello Stato? E quanti errori e orrori potranno commettere nell’assumere una decisione o nello scrivere una legge?

Silvio Berlusconi, Forza Italia
Silvio Berlusconi, Forza Italia

Molti dei parlamentari eletti con Berlusconi sono ancora nei loro scranni, da 30-35 anni. Per fortuna, si può aggiungere. Perché hanno senz’altro avuto modo di apprendere moltissimo e di conoscere le procedure e ogni piega della vita parlamentare e questo è garanzia per i cittadini che sapranno assumere le decisioni con pieno discernimento e consapevolezza delle conseguenze. La democrazia è fondata sulle élites, non nel senso comunemente inteso di “elitario” ma più semplicemente élites intese come ceto in grado di rilegittimarsi ogni volta che i cittadini gli rinnovano il consenso.

L’irruzione sulla scena di Beppe Grillo ha dato nuova linfa all’anatema berlusconiano contro i professionisti della politica. Grillo ha fatto fare alla politica un passo ulteriore verso il baratro e aggredito con veemenza le istituzioni della Repubblica sentendosi legittimato nella sua azione demolitoria dal consenso elettorale: il suo precetto ”uno vale uno” ha scardinato il concetto di rappresentanza e di competenza.

Beppe Grillo
Beppe Grillo

Grillo aveva però alleati, non si sa quanto inconsapevoli, negli stessi partiti che con le ultime leggi elettorali hanno privato gli elettori del loro potere più importante poiché i parlamentari, deputati e senatori, non sono più eletti ma solo nominati dai leader di partito e subiti dagli elettori che desiderano votare per quel partito ma non per quel candidato. È il trionfo della partitocrazia, anzi, della “capocrazia”, cioè quel sinedrio di pochi leader che hanno un potere sterminato che non discende da alcuna fonte se non quella dei consensi personali.

La democrazia, ogni democrazia, vive sul consenso diffuso che va oltre il momento elettorale. Ha bisogno di un plebiscito quotidiano che si manifesta attraverso l’attività di corpi intermedi – sindacati, associazioni, rappresentanze di categoria – che danno ossigeno alle istituzioni, mettono in circolazione nella società istanze, bisogni, idee, danno linfa alle istituzioni altrimenti destinate a ischeletrirsi.

E un autentico politico non può che essere “totus politicus”, esperto di niente e di tutto. Sa di economia ma non è economista, sa di alimentazione ma non è nutrizionista o di meccanica senza essere ingegnere: su tutto deve posare lo sguardo “politico”, deve cioè saper cogliere conseguenze, risvolti e implicazioni sociali. Due mandati, alla Regione o al Comune o in Parlamento, sono la ghigliottina della democrazia: perché significa che il leader di partito ogni due mandati di un presidente di Regione si ritrova nelle mani il potere enorme di nominare un successore.

Un caso concreto: Luca Zaia o Stefano Bonaccini o Vincenzo De Luca non possono ricandidarsi nel Veneto e in Emilia Romagna e in Campania perché non lo meritano? Come si può dire se non si sottopongono al giudizio degli elettori? Oppure non possono ricandidarsi perché in questo modo Meloni, Salvini e Schlein accrescono il loro potere e possono decidere chi candidare al loro posto? Gli elettori veneti, emiliano-romagnoli e campani sono soltanto spettatori passivi di una disputa in cui gli interessi delle loro Regioni non appaiono mai. Anche così la democrazia può morire.

Terzo mandato, Luca Zaia
Terzo mandato, Luca Zaia

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