Spero di non sbagliare, ma la riforma della giustizia sembra essere un po’ uscita dai radar del governo, o quanto meno ne sia stata disconosciuta l’urgenza. Eppure la giustizia incide sulla vita dei cittadini e sulla pelle del Paese da quando è entrata in conflitto con la politica, provocando un cortocircuito tra due fondamenti della democrazia: l’indipendenza della magistratura e la sovranità del Parlamento. Questo problema lo aveva colto lucidamente un grande giurista e uno dei padri della nostra Costituzione, Piero Calamandrei, quando sosteneva che lo stato della democrazia di un Paese è intimamente legato alla condizione della giustizia, perché il ritmo, il respiro della democrazia è identico al ritmo e al respiro della giustizia e perfino del processo: entrambi si fondano infatti sull’urto delle forze, sulla dialettica, sul bilanciamento dei ruoli, secondo regole precise e armoniche, attraverso le quali si raggiunge la verità nel processo e il bene comune nella democrazia. Silvio Berlusconi è stato il simbolo dello scontro tra giustizia e democrazia, tra un popolo che lo votava e una magistratura che lo ha inquisito in ogni forma e in ogni modo. Usando un antico slogan del ’68, si può dire che nel suo caso “il personale è politico”.
E qui viene il punto dolens: con l’abolizione della immunità parlamentare l’Italia ha perso l’istituto più antico nella storia delle libertà, che distingueva la democrazia e le istituzioni, la società e lo Stato. La nostra Costituzione sancisce l’autogoverno della magistratura, ma la riduzione dell’immunità parlamentare ha aperto lo spazio ad un altro diritto e ad un’altra società, che non sono quelli della Costituzione. Ne è venuto il principio secondo cui il politico è al di sotto di ogni sospetto. Se si considerano, inoltre, le possibilità tecniche fornite dagli attuali mezzi di comunicazione – come appare nel caso delle intercettazioni – è evidente che il politico diviene un bersaglio esposto a una pressione che non era pensabile quando è nata la nostra democrazia. Dalla civiltà liberale siamo ritornati al principio secondo cui il politico va sospettato e la sua azione deve essere in libertà vigilata, e ciò nel momento in cui i problemi da affrontare imporrebbero di restituire lo “scettro al principe”, cioè di restituire forza e autorevolezza alla responsabilità della politica.
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Questo non significa affatto che si debba auspicare una qualsiasi impunità per la politica, anzi, ma che vi debbano essere dei validi meccanismi di verifica della fondatezza dell’azione giudiziaria questo sì. Una politica, dunque, non priva di controlli ma, anzi, con verifiche efficaci e giuste, affidate però ad organismi non politicizzati come sono purtroppo oggi alcuni settori della magistratura.
Se dobbiamo pretendere il massimo rigore dalla politica, dobbiamo però anche pretendere che la magistratura rispetti la funzione della politica.
Dopo la morte di Berlusconi è stato ricordato l’avviso di garanzia a Napoli, nel 1994, inviato al presidente del consiglio durante una conferenza internazionale, divulgato previamente a mezzo stampa, e che fece cadere il governo nonostante le accuse si fossero poi rivelate infondate. Dopo Mani Pulite, fu la prima conferma dell’uso politico della giustizia. Ma in una democrazia liberale non è accettabile il principio che associazioni rappresentative o singoli magistrati si considerino interlocutori “politici” dei governi e del Parlamento, per plasmare proposte di legge o, meglio, per criticarle e affermarne la disapplicazione. La riforma della giustizia servirebbe anche per ripensare il sistema di responsabilità disciplinare dei magistrati, affidato oggi ad un organo che, a prescindere dalla bontà in concreto delle sue decisioni, è “interno” e dunque “condizionato”, inevitabilmente, da quel Consiglio Superiore che ne vota e ne elegge i componenti. Una indipendenza e terzietà più efficaci, per la funzione disciplinare, sarebbe auspicabile.
Ma il primo problema è riportare nella fisiologia democratica il rapporto tra politica e magistratura: qualcuno pensa ancora che il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale sia rispettato nel nostro Paese? O è piuttosto vero che ogni singolo pm possa esercitare una discrezionalità “di fatto” scegliendo, con criteri per nulla trasparenti – e dunque tali da indurre sospetto – quale processo accelerare e quale altro lasciare verso la prescrizione?
Poi c’è l’altro tema che tocca ogni giorno decine di migliaia di cittadini, e che può riguardare ciascuno di noi: centomila intercettazioni telefoniche, aggravate dall’uso dei trojan, che entrano con violenza nella vita di troppi cittadini che spesso con un reato non hanno mai avuto nulla a che fare. In nessun altro Paese sarebbe tollerabile, senza pene severe per i responsabili, che finiscano sui giornali nomi, immagini e conversazioni private di persone che nulla hanno a che fare con un’indagine. Il danno prodotto è irreparabile, i media lo amplificano a dismisura e nessuno paga. Non il giornalista, che adempie al diritto di cronaca. Ma neppure e soprattutto chi davvero dovrebbe pagare: cioè chi fornisce la notizia che dovrebbe essere segreta, sia esso un magistrato, un cancelliere, un addetto tecnico alla intercettazione. Nessuno indaga, nessuno paga, e il cittadino è senza tutela. Mentre un magistrato può incidere, come dimostra la storia recente, sulla durata di un governo, sulla vita politica del Paese.
Va quindi affrontato senza tabù ideologici il tema della separazione delle carriere, provvedimento ormai assolutamente necessario, e bisogna riformare il Csm per consentire la massima indipendenza della magistratura dal potere politico ma contestualmente evitare che il cittadino abbia l’impressione che l’autodichia assoluta di cui godono i magistrati non li faccia apparire al di sopra della legge.
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