In Europa e a Kiev non sono tempi per chi vuol perdere tempo. L’arrivo di Trump alla Casa Bianca è stato un terremoto nelle relazioni internazionali e le onde sismiche si propagano senza sosta, ogni ora del giorno. Un vero e proprio sciame: la guerra, il commercio, la politica estera tutto è stato messo sottosopra. Non si sa chi e in che modo e con quanto tempo potrà restituire una parvenza d’ordine alla vita internazionale.
L’Europa, già nel mirino di Putin, è finita anche in quello di Trump. Non per i dazi né per la linea sulla guerra in Ucraina. No: l’Unione europea è il bersaglio di un odio tanto sincero quanto profondo, come ci ha fatto sapere il vice di Trump, James David Vance. Un sentimento a tal punto radicato da far considerare all’amministrazione americana la possibilità di chiedere un risarcimento all’Europa per la spesa sostenuta con l’attacco militare alle postazioni degli Houti nello Yemen del Nord, poiché sarebbe l’Europa, insieme all’Egitto, la vera beneficiaria della libertà di navigazione sulla rotta commerciale del Mar Rosso.
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Europa: le ragioni ideali, politiche e morali
Con simili premesse, si può intuire lo smarrimento in cui viene a trovarsi la diplomazia europea. E ancora meglio si può comprendere la necessità di allestire delle reazioni veloci e immediate, ma ben ponderate, di fronte a un (ex) alleato diventato nel frattempo un competitore spietato. Se la politica e i rapporti fra partner si riducono a una visione ”transazionale” vuol dire che sono finite o diventate irrilevanti le ragioni ideali, politiche e morali che erano alla base stessa dell’idea di Occidente.
Da qui nasce l’urgenza per le democrazie europee di accelerare un processo di integrazione politica che non potrà, per ovvie ragioni, coinvolgere in egual misura e con la stessa intensità i 27 Paesi dell’Unione. La via obbligata è quella della “cooperazione rafforzata”, vale a dire un nucleo di Paesi, che rappresenti almeno il 20% della popolazione e non sia in numero inferiore a 5, potrà dare vita a un’integrazione più veloce sulle politiche industriali come in materia di sicurezza e difesa. Perché il tema oggi dominante è quello imposto dalla Russia di Putin e dal voltafaccia di Trump: entrambi hanno detto all’Europa che è più sola di fronte alle proprie responsabilità e dunque più sola di fronte al proprio destino.
Europa tra fallimenti e progetti
Tutto quanto vediamo muoversi intorno all’Unione europea, dai dazi bellicosi annunciati da Trump al continuo rilancio di Mosca al tavolo dei negoziati, è l’annuncio di un assedio che non sarà né breve né lieve. E la difesa dell’Ucraina, il desiderio legittimo di Zelensky di vedere riconosciuta l’indipendenza e la libertà del suo popolo e del suo Paese, è la vera cartina di tornasole per capire se l’Europa è sul punto di reinventarsi facendo uno scatto nella maturazione del suo progetto o se quanto abbiamo visto fino a oggi è destinato a finire fra le memorie ingloriose dei suoi fallimenti.
La riunione dei “volenterosi” convocata da Macron è parte di un ritrovato attivismo politico e strategico, sicuramente un po’ caotico e incerto nella direzione, ma segnala comunque una presa di coscienza forte, come mai era stata in passato, della necessità di assumere decisioni e responsabilità fini a ieri assolte dal principale alleato oltre Oceano. Se far parte dei “volenterosi” è decisivo per le grandi democrazie europee, ancora di più lo è per l’Italia, Paese fondatore. Per due ragioni fra loro profondamente intrecciate. La prima è da cercare nell’attenuazione del legame transatlantico. Se temporaneo o irreversibile è presto per dirlo. Molto dipenderà dalle conseguenze che i quattro anni di Trump alla Casa Bianca potranno avere, o non avere, sulla balance of power e più precisamente sulla Costituzione.
La seconda ragione è da cercare negli interessi dell’Italia e nella loro evoluzione in un quadro internazionale terremotato, vivere nel quale impone l’appartenenza a un solido sistema di alleanze. Giorgia Meloni subisce la competizione spietata di Matteo Salvini. Il leader leghista ha messo in gioco la personale sopravvivenza politica con scelte di radicale opposiziome all’Unione europea e di totale adesione alle tesi di Trump e alle pretese di Putin.
Europa, Starmer e Macron ai limiti dell’audacia
Il fatto poi che mascheri il tutto con una spruzzata di pacifismo rende complicata la sfida per Meloni, salda una tacita alleanza con i Cinquestelle e i Verdi, che a loro volta paralizzano il Pd di Schlein. Meloni ha visto sfumare in poche settimane il sogno di essere la mediatrice fra Bruxelles e Washington. Per responsabilità del fracasso fatto da Trump, certamente. In parte, però, anche per qualche sua esitazione di troppo nell’aderire allo schema dell’Europa.
Starmer e Macron dominano il gioco per la risolutezza ai limiti dell’audacia con cui si muovono sulla guerra in Ucraina. Londra e Parigi sono l’avanguardia di quell’Europa che è pronta a sostenere Zelensky e a colmare gli eventuali vuoti di forniture militari e di intelligence che potrà provocare Trump. L’Italia non manderà militari in un’eventuale comando di peacekeeping, ma soltanto sotto la bandiera Onu e con truppe di altri Paesi, possibilmente neutrali. Nello stesso tempo Meloni richiede di estendere l’art. 5 della Nato all’Ucraina. C’è una contraddizione di troppo in tutto questo.
Se la Russia dovesse violare il cessate il fuoco, è la Nato che deve intervenire? E come potrebbe se i militari in Ucraina sono sotto le bandiere dell’Onu? Il governo deve chiarire ulteriormente la propria linea di condotta. L’Unione europea non può abbandonare Kiev. Per la ragione che da tre anni ha legato il proprio destino a quello dell’Ucraina. L’Unione nasce o muore in quell’estremo lembo d’Europa.
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