EuroMeloni, opportunità e rischi per la premier nell’Unione quasi spiaggiata

Il bimotore carolingio è imballato: Macron deve risolvere una confusa crisi di governo e cercarsi una maggioranza meno precaria; la Germania, in attesa delle elezioni politiche il 25 febbraio, è alle prese con il più pesante deficit di bilancio della propria storia. L’Italia, con un governo stabile come mai dai tempi del secondo governo Berlusconi, si trova nella locomotiva di testa della Ue. Meloni può aggiustare alcuni dei dossier più controversi (a cominciare dal Green deal) ma deve guardarsi dalla tentazione di cambiare la direzione di marcia dell’Unione

Roberto Guerriero
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Giorgia Meloni vive un nuovo, insperato stato di grazia. Non solo e non tanto in Italia, ma lo vive in quell’Europa matrigna a cui lei ha guardato, ricambiata, con quella diffidenza propria di chi non poteva tollerare di essere ritenuta solo una underdog, inadeguata a sedere ai tavoli che contano per via della propria autobiografia politica. Certe ruvidezze viste in Europa al momento dell’insediamento del governo italiano sembrano lontane nel tempo. Non foss’altro perché i loro autori o sono usciti di scena oppure la calcano oggi con evidente affanno. Valga per tutti la crisi in cui Macron ha precipitato la Francia con le elezioni legislative a luglio. Per tacere della Germania di Olaf Scholz, costretto a convocare nuove elezioni nel cuore dell’inverno dopo la cacciata dal governo di quei liberali “rigoristi”, ossessionati dalla quadratura del bilancio pubblico.

Con il bimotore carolingio imballato è l’Unione tutta a entrare in una fase di forte turbolenza mentre non accennano a diminuire le difficoltà e le minacce ai suoi confini. La guerra in Ucraina è lontana da una soluzione negoziale. I colloqui a Parigi fra Trump, Macron e Zelenski non hanno sortito quella svolta clamorosa promessa dal tycoon. Anche Trump sa di doversi muovere seguendo la strada della cautela, perché una cosa è promettere la pace in campagna elettorale, altra è realizzarla una volta giunto al potere.

In un quadro dominato da mille incognite, il governo di Giorgia Meloni può muoversi con un’agilità negata ad altri governi per le ragioni che si diceva. Un tale favore di circostanze è davvero una grande, inattesa opportunità per l’Italia di far sentire con più autorevolezza la propria voce nelle stanze che contano. Grande spazio di manovra, non significa però aperti a qualsiasi manovra. Mai come in casi del genere la prudenza e la responsabilità si impongono come metodo di lavoro. Meloni sa muoversi con una certa abilità, dote che le viene riconosciuta anche da chi gliel’aveva negata fino all’altro ieri.

Che cosa significa per Meloni e per l’Italia? Gli oppositori “a prescindere”, naturalmente, sottolineano i rischi e insistono sulla presunta inadeguatezza politica della premier per dirsi scettici e preoccupati su quello che l’Italia potrà fare in Europa nei mesi per così dire di “supplenza”, in attesa che la Germania ritrovi la stabilità di governo e Macron metta in piedi una nuova e meno improvvisata maggioranza. Se, al contrario, si guarda alla scena con l’occhio dello “spettatore impegnato”, come avrebbe detto Raymond Aron, si possono scorgere alcune significative opportunità da cogliere. Per esempio: la battaglia condotta fino a oggi per una rilettura meno ideologica del Green deal è un atout giocato abilmente da Meloni e nelle prossime settimane il suo governo potrebbe imporre la questione nell’agenda del prossimo Consiglio europeo. Se il Green deal scritto dall’olandese Timmmermans era un distillato di pura ideologia fondamentalista sull’ambiente, chi oggi vuole, e può, correggerlo dovrà evitare di farlo in nome di un’ideologia alternativa. Un accordo è utile se non si fa a somma zero, ma sposta invece la questione sul terreno del pragmatismo.

Meloni non era presente al colloquio con Trump, Macron e Zelensky. Poco male. Ma se Zelensky e Macron dovessero invece procedere a un aggiustamento di linea politica e militare senza coinvolgere l’Italia, fornitrice di armi e di aiuti economici come altri Paesi, allora la vicenda assumerebbe tutt’altra dimensione. Meloni non può accettare per sé un ruolo residuale. Il nostro Paese ha fatto e più che bene la propria parte nel sostenere la resistenza dell’Ucraina all’aggressione di Putin. Siamo dunque nella posizione di chi ha tutto il diritto di sedere al tavolo dove si assumono le decisioni.

L’incontro di Meloni con Trump, a Parigi, non rientra nella categoria delle svolte storiche. Più importante sembrato il vertice con Orban, a Roma la settimana scorsa. Importante al punto da essere concluso senza il consueto comunicato congiunto, a conferma di qualche evidente e importante divergenza sul sostegno all’Ucraina o, secondo indiscrezioni, in materia di immigrazione. Il silenzio su questo vertice autorizza a pensare che Giorgia Meloni abbia fatto la scelta più ragionevole e utile per lei, e proficua per l’Italia: rimanere nel solco delle linee dell’Unione e tentare, da questa posizione, di restituire un minimo di compattezza alla componente dei conservatori nel Parlamento europeo, dopo le divisioni registrate con il voto sulla Commissione.

È un’opera di tessitura quella che tenta Giorgia Meloni. Tessere per consolidare l’allargamento della maggioranza in Europa, evitando di puntare al suo rovesciamento perché significherebbe per Meloni ritrovarsi in compagnia di forze filo-putiniane e ostili a Zelensky. Una contraddizione che non giova a lei e ancor meno all’Italia.

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