C’era una volta in America…

Donald Trump è entrato alla Casa Bianca con la promessa di una nuova "golden age" da finanziare soprattutto con i dazi. La filosofia è semplice e ruvida: arricchire ogni americano, anche se questo significa impoverire chi americano non è. Ha promesso che farà sventolare la bandiera a stelle e strisce su Marte. Libertà di trivellazione per tutti, petrolio e gas in abbondanza. Stop al vangelo ambientalista e all’obbligo di auto elettriche (chissà che cosa ne pensa Elon Musk?). Con un presidente così determinato non basta la mediazione di un solo Paese: è l’Unione europea che deve negoziare e cercare accordi. Andare divisi sui dazi sarebbe una rovina

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Donald Trump è entrato con gran fragore nel suo secondo mandato presidenziale. Ha ragione Federico Rampini sul Corriere della Sera a rilevare differenze significative fra il primo (2017) e il secondo discorso di insediamento (2025). Otto anni fa Trump poté denunciare la “industrial carnage” (carneficina industriale) provocata dall’invasione di prodotti cinesi, dall’arrivo massiccio di immigrati.

Otto anni dopo la scena è del tutto cambiata. Promettere una nuova età dell’oro è l’ammissione implicita che dopo tutto le cose non sono così messe male. Alla presenza dei suoi predecessori, il discorso di insediamento si è risolto in una dura, e ingiustificata requisitoria contro di essi. Su un punto Trump ha ragione: l’inflazione rimane elevata e, si sa, è la più odiosa delle tasse perché colpisce i ceti più deboli. Quanto al resto, l’America che gli viene consegnata da Biden gode di ottima salute: l’occupazione è ai livelli più alti degli ultimi decenni, i big tech sono i padroni dell’universo digitale che controllano attraverso le piattaforme di Zuckerberg (Facebook) e Musk (X, ex Twitter).

Trump ha lanciato una batteria di bengala che hanno illuminato i cieli di Groenlandia, Canada e Panama, e le cancellerie non solo europee hanno aggrottato il sopracciglio di fronte alla possibilità di sconquassi nelle relazioni internazionali. La verità è più semplice, non per questo meno inquietante.

Nel discorso di insediamento di Trump si potevano leggere gli strascichi della campagna elettorale e non si poteva pretendere che di punto in bianco, parlando all’America, dicesse cose troppo diverse dai martellanti slogan elettorali. È sicuro che il commander in chief  firmerà il centinaio di decreti presidenziali per le espulsioni di massa, salvo poi verificare i modi e i tempi per realizzare il piano, e senza dare per scontato il silenzio della Corte Suprema.

La spiegazione fornita sulla politica dei dazi ha un che di surreale. Trump ha spiegato che in quel modo crescerà la ricchezza dei cittadini americani, il che significa che ci sarà un impoverimento dei produttori stranieri che troveranno difficoltà maggiori a vendere i propri beni in America. Con il risvolto, forse non del tutto valutato, di un arretramento nel tenore di vita del ceto medio, abituato a consumare beni italiani o francesi che troverà più cari. Quello dei dazi è un capitolo spinoso per l’Unione europea.

Trump è un abile negoziatore, non bisogna dunque farsi ingannare dalle sue “sparate” demagogiche. La sua abilità è sempre stata di dividere i suoi interlocutori per indebolirne la forza negoziale. Giorgia Meloni gode certamente di feeling politico con la nuova amministrazione. Sa bene, essendo una premier accorta e non sprovveduta, che Trump non fa sconti agli avversari e dagli alleati ama pretendere una docile adesione ai suoi punti di vista. Se e quando si porrà la questione dei dazi alle merci che entrano negli Stati Uniti, quale potrebbe mai essere la forza negoziale di un singolo premier, per quanto autorevole sia Giorgia Meloni?

Pensare che le affinità politiche siano di per sé sufficienti per ottenere un trattamento di favore rischia di essere un abbaglio. Trump ha già spiegato che intende aumentare la ricchezza degli americani e di volerlo fare scaricando i costi sul resto del mondo. America first questo significa. L’unica alleanza per lui concepibile è fra la sua persona e il popolo che lo ha eletto. Demiurgo e demagogo, Trump punta a dividere l’Europa perché un fronte diviso è più malleabile, e, all’occorrenza, ricattabile.

Se all’Italia concede un trattamento di favore sul prosciutto di Parma o sul Parmigiano, c’è da star sicuri che lo farà scontare alle auto tedesche o ai vini francesi. Che fare? Di fronte a questo bivio potrebbe mai il governo Meloni accettare un trattamento di riguardo che verrebbe fatto pagare agli alleati europei?

I primi atti di Trump verso le istituzioni internazionali non sono affatto rassicuranti. Gli USA lasceranno l’Organizzazione mondiale della Sanità per vendetta al suo comportamento sulla pandemia. Allo stesso modo si preparano ad abbandonare gli accordi di Cop26, perché dell’ambiente a Trump interessa niente. E agli americani ha promesso “trivella libera”, dal giardino di casa fino in pieno oceano. Sono atti significativi, ma ancora non risolutivi per comprendere fino in fondo la direzione che vorrà imprimere alla politica estera americana. Dice un proverbio popolare che il diavolo alla fine è meno brutto di come viene raffigurato.

Per capirci meglio: davvero Trump toglierebbe ogni aiuto all’Ucraina pur di indurre Zelensky ad accettare qualsiasi pace, a costo anche di cedere tutti i territori occupati alla Russia? È lecito dubitare che potrebbe mai accettare una soluzione simile. Nella sua spregiudicatezza, l’uomo potrebbe mettere tante pedine sullo stesso scacchiere – Ucraina, dazi, ambiente – e, senza troppi scrupoli, mettere i Paesi europei l’uno contro l’altro.

Questo è il vero rischio da evitare. Questa è la trappola da cui farà bene a tenersi lontana Giorgia Meloni: essere vista a Bruxelles come il cavallo di Troia di Trump, e a Washington considerata come una junior partner la cui fedeltà politica va ricompensata con qualche contentino. I danni per l’Europa sarebbero irreparabili, per Meloni sarebbe però la fine politica.

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