Muoia Biden con tutti i filistei

Giuliano Guida Bardi
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Con la sua malmostosa e tardiva rinuncia alla candidatura, Joe Biden non ha affatto compiuto un nobile passo indietro, non ha anteposto gli interessi della nazione a quelli personali, non ha vestito gli abiti dello statista. Ha indossato, invece, il costume di scena di House of cards e si è mosso nel solco tracciato da Francis Underwood: dire una cosa per significarne un’altra, fare una cosa per arrivarne all’opposto.

Come sanno anche i sassi del Potomac, Joe Biden riteneva incrollabilmente – in magica armonia con moglie, figlio e i suoi principali collaboratori – di essere il miglior candidato per evitare a Donald Trump di collocarsi nello studio ovale per il prossimo quadriennio. In ciò Biden era confortato da molti sondaggi e dal suo mestiere antico, così collaudato da essere capace di resistere anche a qualche svampimento, ai vuoti di memoria e ad uno stato di lieve confusione cognitiva. Un torpore innocuo.

Ne era così convinto, Biden, da aver rifiutato da molti mesi di prendere anche solo in considerazione l’ipotesi di cedere il passo. E certi erano anche i Democrats, peraltro, che hanno dato solo qualche settimana fa al vegliardo una nomination con oltre il 95% dei consensi.

Ma non si può andare in paradiso se i santi non vogliono. Così Biden ha capito che avere contro Nancy Pelosi e gli Obama, un manipolo di senatori e governatori Dem, le star dell’Hollywood system e il New York Times, tra gli altri, non gli avrebbe mai consentito di procedere.

Ha giocato l’ultima carta, il vecchio Joe: giocare a fare lo statista, avvelenare i pozzi e dimostrare che, se lui andava male, gli altri andranno di sicuro peggio.

Per questo motivo Biden ha scritto un commosso e pomposo addio alla nazione e ha rinunciato a correre per le elezioni di novembre. Ma si è tradito, perché, come scriveva Sofocle “di quelli che architettano nell’ombra qualcosa, l’animo, benché nascosto, anzitempo suole tradirsi.” E il tradimento delle vere intenzioni al curaro dell’ottuagenario canuto e malvagio è l’endorsement per Kamala Harris, la sua vice. Quella donna, messa in disparte per quattro anni di mandato e considerata dai Biden la vera artefice del complottone che ha messo a Joe due piedi in una scarpa. Teoria del vantaggio: chi trae la massima utilità da un fatto, ne è l’autore. Non è vero che Biden vuole che lei sia la candidata, non è vero che la appoggia, non è vero che lavorerà per la sua elezione.

Perché?

Ma perché è evidente che se avesse davvero voluto tirare la volata alla sua vice, se davvero avesse ritenuto che la migliore scelta per il Paese fosse che la giovane californiana avanzasse mentre lui recedeva, allora si sarebbe dimesso dalle funzioni di Presidente degli Stati Uniti. In un sol gesto avrebbe consentito che la Harris giurasse, in pochi minuti, da Presidente e affrontasse la sfida impossibile con il tycoon dal ciuffo laccato da una vera posizione di forza. Nei quattro mesi che ci separano dal voto, gli americani avrebbero potuto conoscere realmente la tempra di una donna chiamata al mestiere più difficile e impegnativo del mondo. Avrebbero sentito il sapore della cucina kamaliana e avrebbero capito che i democratici cambiavano davvero cavallo. Invece no! Biden tiene attaccata a sé la poltrona e infetta con la sua posizione usurata anche la sua vicepresidente che vuole rubargli il posto.

Controprove? Eccole: gli Obama non si accodano al coro dei Clinton che plaudono alla scelta di indicare l’attuale vicepresidente. Segno, evidentemente che Barack mira ad un’altra soluzione, magari sempre donna, magari sempre nera, ma magari vincente. Proprio, cioè, quello che i Clinton non vogliono.

Altre prove? Kamala Harris accetta l’investitura presidenziale con due ore di stop, cioè quasi un’eternità nei tempi della comunicazione istantanea.

Insomma, si deve essere detto il vecchio Joe, cada Sansone, ma con tutti i Filistei.

Più cattivi di così, davvero, non si poteva essere.

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