L’esplorazione americana di Meloni fra molti rischi e qualche opportunità

Attesa a Washington giovedì 17 aprile, cioè 48 ore dopo l’entrata in vigore dei contro-dazi europei. Sarà un colloquio complicato, e Trump non lo ha certo agevolato con le sue battute triviali. Se tutto si risolverà in un dialogo interlocutorio, magari con la promessa di rivedersi, equivarrebbe a un pareggio senza biasimo e senza lode. Se invece il tycoon digrignerà i denti, per Meloni sarebbe un insuccesso pesante. In ogni caso, si può escludere che la presidente del Consiglio si presti a trattative bilaterali. In tal caso otterrebbe molto poco da Trump, e perderebbe moltissimo in Europa

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Grande è la confusione sotto il cielo, situazione quindi eccellente”: l’aforisma fra i più citati di Maozedong deve essere tornato alla mente di Elon Musk quando l’altro giorno ha preso a male parole il consigliere per il commercio di Donald Trump, Navarro, che difendeva a spada tratta il muro tariffario costruito dal suo presidente. “Sei più stupido di una cassa di mattoni”, lo ha apostrofato un Musk visibilmente irritato. Il fatto è che le tessere del complicato mosaico di tariffe messo in piedi da Trump sullo sfondo del Giardino delle Rose alla Casa Bianca comincia a traballare. Non per volontà di Trump, determinato a vedere “l’effetto che fa”, avrebbe detto Jannacci. Quanto per la confusione in cui è finito l’inner circle della Sala Ovale. Dopo aver sparato tutte le munizioni e sentirsi ringalluzziti per le reazioni fra lo sconcerto e l’irritazione dei leader mondiali, i trumpiani cercano di capire loro stessi gli ingranaggi della macchina diabolica allestita per tener fede alle promesse elettorali.

Giorgia Meloni, unica fra i leader europei, ha tentato fin dalla prima ora di ridimensionare la minaccia dei dazi. Preoccupazione ma non allarmismo, ha ripetuto a quanti la strattonavano per invocare una sua reazione. Più che per minimizzare, come è stata accusata dalle opposizioni, Meloni ha scelto una linea per così dire attendista, avendo in animo già dal 2 aprile di volare a Washington per sentire dalla voce di Trump se ci sono spazi per negoziare un accordo meno oneroso per tutti.

Non può alzare i toni un premier che deve persuadere il suo interlocutore altrimenti avrebbe bruciato ogni spazio negoziale. La questione semmai è un’altra: quanti e quali sono i rischi di imbarcarsi in un’interlocuzione con un presidente imprevedibile nelle sue azioni, fumino nel carattere? Che tipo di approccio, non solo politico, è più utile cercare con un soggetto che gongola per aver suscitato allarme nel mondo? Il livello di incertezza è al massimo e Giorgia Meloni, per mesi indicata dai suoi come l’unica mediatrice fra Europa e Stati Uniti, sa di rischiare molto. La sua missione a Washington vale tutta la sua vita politica. La scommessa è temibile perché alta è la posta in palio.

Proviamo a disegnare i possibili scenari. A Washington si reca Meloni nella duplice veste di presidente del Consiglio italiano e, come tale, partner autorevole dell’Unione europea. Come premier, ha l’autorevolezza giusta per trattare con un presidente al quale è unita da grande affinità politica, certamente senza gli entusiasmi infantili di un Matteo Salvini. Nel caso specifico, Meloni deve far leva sulla sintonia politica per ribaltare l’ideologia tariffaria di Trump, convincerlo quindi del danno sicuro e del vantaggio incerto che può venire agli Usa dal 25% di dazi imposti all’Europa. L’impresa equivale a scalare l’Everest vestiti di una semplice t-shirt.

Me non è al risultato pieno – azzeramento dei tassi all’Europa – che punta Meloni. Un traguardo simile sarebbe forse possibile, ma il prezzo che esigerebbe Trump sarebbe intollerabile per Meloni e l’Italia. Perché il tycoon potrebbe essere disposto a riconoscere dei vantaggi ma soltanto all’Italia e al solo scopo di seminare divisioni e frantumare il fronte europeo. In quel caso Meloni tornerebbe da trionfatrice a Roma, ma dovrebbe poi affrontare il risentimento della Commissione europea e degli altri partner, pregiudicando in modo irrimediabile l’affidabilità del nostro Paese.

Si può ragionevolmente riconoscere a Meloni una certa temerarietà nell’affrontare la vicenda. Il che rientra nella sua natura e nel suo carattere politico. Per chi ama le sfide niente è più sfidante che presentarsi alla Casa Bianca 48 ore dopo che l’Europa ha varato i contro-dazi. E spiegare a un Trump malmostoso che la miccia da lui per primo accesa può essere spenta primo che faccia detonare in modo irreversibile le relazioni euro-atlantiche. Ecco: fermare il timer e la spirale di ritorsioni e contro-ritorsioni sarebbe un risultato più che soddisfacente per Giorgia Meloni, da spendere in Europa e tale da consentire di meglio calibrare eventuali, ulteriori risposte dell’Unione. Evitare una nuova reazione ai contro-dazi europei sarebbe un ottimo risultato, segnerebbe, per così dire, quel “zero a zero” indispensabile perché la Commissione possa intavolare il negoziato vero e proprio.

La disponibilità immediata manifestata da Antonio Tajani ad acquistare più gas liquido e gli armamenti dagli Usa non è stata una mossa felice. Addirittura disgraziata se non concordata in sede europea. Quando si riferisce alla necessità di riequilibrare la bilancia commerciale con l’Europa, non sfugge a nessuno che Trump si riferisce a tre Paesi in particolare: Germania, Italia e Irlanda. Cioè alle prime due manifatture che esportano massicciamente oltreoceano e all’isola che ospita in un ambiente fiscalmente invitante le sedi europee delle grandi big-tech americane. Colpirne 27 come rappresaglia verso quei tre Paesi, però, è come aver sparato con un bazooka alla mosca sul vetro. Meloni, che non è un’ingenua, lo sa. Saprà muoversi di conseguenza? Sarà abbastanza fortunata da arrivare a Washington senza l’eco fastidiosa provocata dalle espressioni scatologiche di Trump, degne di una caserma di Federico II di Prussia?

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