Silvio Berlusconi è stato un geniale interprete dell’italianità, un grande imprenditore e un leader politico eccentrico, un uomo del fare e un intrigante affabulatore, anche un populista, certo, che non ha mai smarrito, però, il metronomo delle istituzioni. E’ stato, insomma, un Cavaliere rivoluzionario e riformista, capitano d’industria e presidente operaio, ossimori che si attagliano perfettamente alla sua natura poliedrica. Lo hanno paragonato impropriamente a Donald Trump, ma quando l’allora Sua Emittenza si catapultò in politica, quella fu una presenza più rassicurante che ingombrante, perché – cercando di restituire dignità a un elettorato a un corpo sociale a cui l’operazione Mani Pulite aveva tagliato la testa – rimise in equilibrio l’asse della democrazia. Fu il peccato originale che la sinistra non gli ha mai perdonato, e infatti il cosiddetto ventennio berlusconiano – anche se la metà esatta di quegli anni fu governata dalla sinistra – si è trasformato in una estenuante guerra di posizione delegittimante per i contendenti e per le istituzioni, con un convitato di pietra – la magistratura – perennemente in campo. Che Berlusconi sia stato perseguitato dalle Procure non è una teoria ma una verità conclamata: lo dicono le cronache giudiziarie e lo confermerà la storia. Gliene hanno fatte di tutte: dalla postdatazione di un presunto reato nel caso Mills (la prescrizione non scatta quando viene consegnato il denaro, ma quando si comincia a spenderlo!) all’applicazione retroattiva della legge Severino per cacciarlo dal Senato. Un abominio dietro l’altro. Una persecuzione, appunto, che ha trovato facile esca nelle debolezze umane di un leader carismatico e di un uomo che resta grande anche nei peccati, che la Procura di Milano, come gli ayatollah, ha preteso inutilmente di trasformare in reati.
Un uomo di grandissima umanità, Berlusconi. Che quando mia moglie si ammalò di una grave malattia seppe starci premurosamente vicino come un amico di famiglia. Il Cavaliere nero, il Caimano, B. – l’abbreviativo inflitto dai suoi nemici – ha dimostrato di avere testa, determinazione e coraggio, e anche più anima di tutti, anche se a volte è stato l’istinto a tradirlo, come quando decise di gettare a mare il patto del Nazareno, che rappresentava la conclusione virtuosa di venti anni di guerriglia civile, e che lo aveva visto accolto con tutti gli onori nella sede dei suoi acerrimi avversari, quelli che lo avevano espulso dal Parlamento e lo vedevano tornare al centro della politica come Padre costituente, rimesso peraltro sul trono dal loro segretario di partito, Matteo Renzi. Eppure Berlusconi non si fidò e preferì fare sponda con D’Alema, quello che voleva vederlo mendicare all’angolo di una strada, gettando le riforme su un binario morto. Se quel patto fosse andato a compimento, la storia degli ultimi anni sarebbe stata diversa, forse migliore.
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Ma la vicenda umana e politica di Berlusconi, nonostante la rivoluzione liberale promessa ma non fatta, ha lasciato comunque un segno profondo sulla politica italiana, più nel bene che nel male, a partire dalla modernizzazione della nostra democrazia, che grazie alla sua intuizione per la prima volta ha sperimentato il bipolarismo e l’alternanza di governo. Non a caso nonostante i guai giudiziari, l’odio politico che gli hanno riversato contro, la demonizzazione e il tentativo di ridurlo a macchietta, il Cavaliere non è mai veramente uscito dal proscenio: anzi, come nelle tragedie greche è stato spesso un deus ex machina.
La sua discesa in campo fu avversata in tutti i modi, e coincise con un interminabile periodo di fibrillazione politica e istituzionale. Le sue vicende giudiziarie sono state il frutto avvelenato di un’anomalia tutta italiana che si chiama uso politico della giustizia: dopo aver fatto cadere il suo primo governo con un’inchiesta finita nel nulla, gli hanno perfino imputato le stragi di mafia. Il tentativo di far fuori Berlusconi per via giudiziaria riuscì, poi, dieci anni fa con l’applicazione retroattiva (e incostituzionale) della legge Severino. Una dolorosa ferita solo in parte rimarginata dalla rielezione al Senato il 25 settembre, perché resta comunque l’acre sapore dell’ingiustizia di Stato, col purgatorio dei servizi sociali e la sospensione dei diritti di un leader politico sancita da un discutibilissimo voto parlamentare. Fu, quella, una delle pagine peggiori del giustizialismo: a Berlusconi non è mai stato perdonato il peccato originale di aver rimesso in equilibrio l’asse della democrazia dopo la ghigliottina di Tangentopoli, e la sua cacciata dal Parlamento era il verdetto che avrebbe dovuto chiudere un’epoca.
Ci avevano provato anche nel 2011, con la crisi del debito sovrano che costrinse Berlusconi a dimettersi da premier. Eppure il suo governo aveva poste le premesse per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, e le considerazioni finali della Banca d’Italia davano atto di una “gestione della crisi prudente e appropriata”. Ma una settimana dopo arrivò la lettera-diktat della Bce che ordinava al governo italiano di varare, per decreto, una manovra bis da 65 miliardi che si sommava a quella da 80 miliardi decisa appena un mese prima. Com’era possibile che un grande Paese come l’Italia ( too big to fail) precipitasse nel giro di pochi giorni in una crisi irreversibile?
E’ certo che in quei mesi accaddero fatti decisamente anomali: l’attacco speculativo ai titoli Mediaset, la Deutsche Bank che si disfece della quasi totalità dei titoli di Stato italiani, lo spread manovrato ad arte: fu il Wall Street Journal a scoperchiare il pentolone ricostruendo il clima ostile delle settimane convulse che precedettero la crisi di governo, tesi poi confermata da un’autorevole fonte americana, che diede conto delle pressioni europee su Obama per far uscire Berlusconi di scena. Questa ricostruzione è un modo per rendere giustizia al Cavaliere, un combattente che non si è mai arreso e che ha saputo restare al centro della politica fino agli ultimi giorni della sua lunga e intensa vita. E’ stato il protagonista assoluto di una stagione con più luci che ombre: con Milano due ha modernizzato l’urbanistica, col Milan ha conquistato il calcio, con le tv ha rivoluzionato l’emittenza, con Forza Italia ha cambiato la politica. Ha tentato in ogni modo di essere un pacificatore nazionale, ma ha trovato a sinistra un incrollabile muro di ostilità, e l’antiberlusconismo è diventato un mantra ideologico e una postura intellettuale. Ma se n’è andato, spero, senza rimpianti, lasciando un impero ai figli e un’eredità politica che è auspicabile non vada dispersa.
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