Domenica 19 gennaio è il giorno in cui nella Striscia di Gaza le bombe smetteranno di cadere e i bambini potranno tornare a giocare in strada e a godere di cibo e beni di prima necessità, forniti dai circa 600 camion che ogni giorno potranno entrare in Palestina. Domenica è anche il giorno in cui i primi 3 ostaggi israeliani presenti nella Striscia potranno fare ritorno in Israele e abbracciare i loro cari, dopo mesi in cui le tensioni e la mancata comunicazione hanno fatto temere il peggio.
La sigla dell’accordo di Doha, in Qatar, diventa quindi uno dei momenti cardine della storia contemporanea, che segna la fine di un conflitto devastante e destabilizzante durato per 16 lunghi mesi. Qualche scettico, però, attende ancora prima di tirare il sospiro di sollievo definitivo. Nei giorni che mancano a domenica, infatti, potrebbe verificarsi un qualche tipo di episodio che potrebbe convincere una delle due parti, o entrambe, a ritirarsi dall’accordo. L’ombra di Donald Trump, il presidente eletto che entrerà ufficialmente alla Casa Bianca il 20 gennaio, potrebbe però far desistere Hamas e Israele da un nuovo strappo.
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Gli avvertimenti del tycoon, che ha richiesto il cessate il fuoco prima del suo insediamento, sono stati uno dei fattori principali che hanno portato al successo dei negoziati in Qatar. Lunedì prossimo, quindi, il miliardario salirà al potere nella consapevolezza che uno dei due conflitti a cui aveva promesso di porre fine si è già concluso. “Ho avuto questo risultato senza nemmeno essere alla Casa Bianca“, ha sostenuto ieri il miliardario, lasciando intendere i piani straordinari che potrebbe mettere in atto una volta che la sua elezione sarà ufficiale.
Il dietrofront di Israele
Israele deve ancora porre la firma sull’accordo e i primi segnali di crisi hanno già iniziato a palesarsi. Sembrerebbe che le autorità israeliane abbiano annunciato di voler ritardare la firma del piano sul cessate il fuoco, a causa di alcune modifiche che nelle scorse ore sono state apportate da Hamas. Il governo di Israele, quindi, non si riunirà per approvare l’accordo, “finché i mediatori non avranno notificato a Israele che Hamas ha accettato tutti gli elementi“.
Secondo quanto si apprende, le crisi sono state provocate proprio sul tema del rilascio degli ostaggi. Sembrerebbe che Hamas voglia avere voce in capitolo sull’identità dei prigionieri da liberare, mentre una clausola esplicita del contratto sarebbe a Israele il diritto di veto sul rilascio di “assassini simboli del terrorismo“. Alcuni media israeliani hanno però sottolineato che il ritardo sulla sigla dell’accordo potrebbe essere dovuto anche a motivazioni politiche, in quanto questa mattina si è riunito il partito del Sionismo religioso del ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich, per discutere della possibilità di lasciare l’esecutivo a seguito della ratifica del cessate il fuoco.
Smotrich si è detto sin da subito contrario alla tregua, sostenuto anche dall’esponente dell’opposizione Itamar Ben Gvir, in quanto il cessate il fuoco potrebbe rivelarsi catastrofico per Israele e potrebbe sembrare agli occhi dell’opinione pubblica una vera e propria “resa” dello Stato ebraico.
Il ruolo degli Stati Uniti nella tregua a Gaza
All’interno di questa complessa situazione, è interessante comprendere come un Paese diviso tra un’amministrazione uscente e una pronta a prendere il via abbia potuto giocare un ruolo così importante nelle trattative. Gli Stati Uniti, tra i più potenti alleati di Israele, si sono trovati a seguire le iniziative di ben due presidenti. Joe Biden e Donald Trump hanno costituito un binomio che si è rivelato imprescindibile per la conclusione del conflitto.
Da un lato, il presidente uscente è l’autore del piano in tre fasi che ieri ha ottenuto il via libera di Israele e Hamas. Dall’altro il presidente eletto è il pugno duro che ha intimorito ed esortato le due parti a procedere con l’accordo. Così, in una incredibile collaborazione forzata, e non riconosciuta dalle due parti, gli Stati Uniti vantano un nuovo successo nella Hall of Fame dei negoziati. Il risentimento e la rabbia per una vittoria che però deve essere condivisa si è quindi manifestato in tutta la sua potenza ieri sera, quando ad annunciare la riuscita della trattativa non è stato il presidente in carica, ma il suo successore.
“Gli ostaggi di Hamas saranno rilasciati tra poco“, ha scritto il tycoon su Truth, confermando le indiscrezione che in quei minuti avevano iniziato a circolare nei media mondiali. Solo dopo diverso tempo, il leader degli Usa, Biden, ha tenuto una conferenza stampa, confermando la notizia e chiarendo alcuni dettagli delle trattative. Uno strappo che, ormai, nella consapevolezza del carattere e del personaggio di Trump, non è stato neanche commentato dall’amministrazione vigente. Un certo imbarazzo, però, ha aleggiato nell’aria per tutto il tempo della conferenza, fino a giungere all’ultima domanda, che ha convinto Biden a lasciare la sala senza neanche rispondere.
“La tregua è merito suo o di Donald Trump?“, chiede una giornalista ad un Joe Biden che ha già salutato e voltato le spalle ai professionisti presenti. Il Capo dello Stato si è quindi riavvicinato al microfono con un sorriso sardonico per chiedere se quanto chiesto fosse solo parte di uno scherzo e, ricevendo un “no” come risposta ha deciso di riallontanarsi, senza degnare nessuno di una risposta.
Le prime notizie sulla tregua
Intanto, in Medio Oriente, si continua a discutere dell’attuazione del piano in tre fasi che ieri è stato approvato. Si tratta, dunque, dello stesso accordo preparato lo scorso maggio da Biden e cesellato in questi mesi per rispondere alle richieste delle due parti. La prima fase del piano, che ha una durata di 42 giorni come la seconda, prevede il cessate il fuoco e la liberazione dei primi 33 ostaggi, rilasciati a scaglioni. Inizieranno, inoltre, ad entrare i camion con gli aiuti umanitari promessi e Israele rilascerà migliaia di detenuti palestinesi.
Al momento il numero preciso di questi non è stato rilasciato, ma sembrerebbe che Hamas ne abbia richiesti 250 in cambio di ciascuna delle 5 soldatesse israeliane in ostaggio. Israele ha invece negato la liberazione di Marwan Barghouti, ovvero il comandante di Fatah catturato nel corso della seconda intifada e ha negato il ritorno in Cisgiordania a coloro che si sono macchiati di aver ucciso un cittadino dello Stato ebraico. La seconda fase dell’accordo prosegue con la liberazione degli ostaggi e con il ritiro di parte delle truppe di Israele dalla Striscia di Gaza.
La terza fase, invece, è a sua volta divisa in tre momenti. Innanzitutto, la restituzione dei corpi degli ostaggi morti in prigionia, poi il ritiro delle Forze israeliane di difesa da Gaza e infine la ricostruzione della Striscia insieme ad una nuova autorità civile. L’Italia, attraverso le parole del ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha già annunciato la volontà di collaborare per la ricostruzione, mentre si riflette per comprendere in che modo gestire il processo, evitando che Hamas si rafforzi e possa nuovamente minacciare Israele.
La promessa di Trump è stata infatti quella di voler continuare a collaborare con lo Stato ebraico, nell’ottica di voler evitare che i terroristi riprendano il controllo della Striscia. Intanto, però, dalle fila di Hamas è giunto una sorta di avvertimento, annunciato dal capo negoziatore dell’organizzazione, Khalil al-Hayya: “A nome di tutte le vittime, di ogni goccia di sangue versata e di ogni lacrima di dolore e oppressione, diciamo: non dimenticheremo e non perdoneremo“.
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