Mai terremoto politico fu più annunciato, previsto e puntualmente arrivato con il primo turno delle elezioni parlamentari in Francia. La destra estrema di Marine Le Pen, con il soccorso di una parte dei gollisti, è il primo partito con il 33,14%. Il Nouveau Front Populaire (cartello che comprende il Partito comunista residuale, la France Insoumise del populista Mélenchon, i socialisti di Raphael Glucksmann e gli ecologisti) si è attestato al 27,99%.
Débâcle per Emmanuel Macron: la sua area non va oltre il 20%, e dimezza i voti del 2022. Viene in mente la battuta del barone di Necker, ministro delle Finanze di Luigi XVIII, allorché dalle finestre socchiuse arrivavano le urla del popolo tumultuante sotto la Bastiglia. La regina Maria Antonietta gli chiede che cosa fosse quel tumulto. “È la solita rivolta, barone?”. “No, Madame, questa è una rivoluzione”.
Ecco, i francesi dopo il 1789 e dopo il 1959 (De Gaulle prende il potere), hanno pensato bene che fosse giunto il momento di una nuova rivoluzione. E che rivoluzione. Un’intera classe politica, custode fedele delle istituzioni repubblicane golliste, si trova all’angolo. Con essa finiscono alle corde decenni di relazioni europee, internazionali, di collocazione e postura della Francia nell’Alleanza atlantica e nel mondo. Va in frantumi l’immagine che i francesi avevano di sé o che per loro era stata costruita da quel particolare ceto politico formato all’Ena (École nationale d’administration) da cui è uscito buon ultimo lo stesso Macron.
La France bourgeois, appagata nel suo benessere quotidiano condiviso da un ceto medio cresciuto come in ogni democrazia prima di conoscere il declino portato dalla crisi economica e dai cataclismi geopolitici, ha ceduto alla rabbia sociale di un proletariato confinato in banlieues diventate nel tempo palestre di desolazione e di abbandono, popolate da un’immigrazione che preferisce il ghetto all’integrazione. Da Parigi a Lione, da Bordeaux a Lille, da Nantes a Rouen, si è formato un oceano pescoso ed elettoralmente redditizio per l’estrema destra. Mentre da Parigi si governava sui grandi numeri, sulle compatibilità economiche concordate con l’Europa, la talpa di Le Pen scavava nella frustrazione delle vaste campagne francesi dove la crisi economica veniva amplificata dalla competizione globale e dalla concorrenza cinese, con la conseguenza di un tracollo del reddito disponibile.
Marine Le Pen doveva solo aspettare che si levasse il vento dalla Francia rurale, quella lasciata più indifesa dalle coperture e dai sussidi sociali. Perché il voto in Francia ha avuto lo stesso andamento che in Italia, negli Stati Uniti e la Brexit in Inghilterra: la sinistra e il mondo liberale e riformista sono forti nelle città e nelle grandi aree urbane. Una volta usciti da lì, è la destra a raccogliere i voti dei piccoli centri, delle campagne e dei paysans. La Brexit è passata grazie ai voti dei piccoli centri del Galles, delle campagne del Worcestshire, mica è passata per i voti di città europeiste e globaliste come Londra o Manchester.
Tutto si gioca, a Parigi, nel secondo turno di domenica prossima, 7 luglio. E l’esito della partita è in quella parola magica, conosciuta da noi ai tempi di Prodi: desistenza. Il meccanismo elettorale in Francia è semplice, almeno per l’elezione dell’Assemblra nazionale: si presentano al secondo turno i candidati che abbiano ottenuto almeno il 12,5% delle preferenze al primo turno. Ieri sono stati eletti 37 deputati del Rn di Le Pen, 32 della sinistra, 2 macroniani e 1 dei Républicain, il vecchio partito gollista. Al totale di 72 parlamentari eletti ne mancano grosso modo 500.
La desistenza, cioè la decisione di un partito di ritirare il proprio candidato se arrivato terzo al primo turno e invitare gli elettori a votare per un altro candidato, è la sola arma rimasta a Macron e alla gauche per fronteggiare il Rassemblement. Un’arma potente sul piano elettorale, ma difficile da maneggiare per governare. Mélenchon, Macron, Glucksmann hanno programmi di governo talmente diversi se non contrapposti che non si vede come si possa conciliare l’assistenzialismo del primo con il riformismo degli altri due. Per tacere della politica estera: Mélenchon non sopporta Zelenski e l’Ucraina almeno quanto stima Vladimir Putin. A proposito del quale, il Cremlino ha fatto sapere già ieri sera, appena acquisiti i primi risultati, che segue “da molto vicino” il voto in Francia. Putin non avrebbe potuto sperare di meglio: Le Pen e Mélenchon in testa a tutti, cioè due interlocutori se non proprio amici certamente molto comprensivi verso la Russia,
Ma anche sulla desistenza le cose sono meno semplici di come vorrebbe Macron che fossero. Dentro il suo stesso partito ci sono resistenze a votare per il candidato del Fronte popolare. I Républicains lasciano libertà di voto ai propri elettori, cioè a quel 10% registrato ieri. Ci sono tutte le premesse, insomma, perché domenica sera, a urne chiuse, la Francia si ritrovi con una maggioranza relativa di destra, ma non assoluta (ci vogliono 289 parlamentari). Il giovane Jordan Bardella, secondo il ritratto che ne fanno alcuni giornali certo non amici, è un tipo sveglio, dall’eloquio facile e accattivante. Non ha fatto studi superiori e sembra che sia piuttosto svogliato, applicandosi poco sui dossier importanti. La coabitazione sperimentata la prima volta nel 1984 (Mitterrand presidente, Chirac premier) e poi nel 2004 (Chirac presidente, il socialista Jospin premier) ha funzionato non per le virtù della Costituzione ma grazie al temperamento dei suoi protagonisti. Mitterrand aveva l’allure del capo supremo e Chirac si adeguò sia pure di malagrazia. Con Bardella e la destra con una maggioranza assoluta, i rivolgimenti in Europa sarebbero di tali dimensioni da ritrovarci già l’8 luglio in un mondo nuovo e incognito. Nel programma di Le Pen c’è la fine di ogni aiuto all’Ucraina, il taglio dei finanziamenti francesi al funzionamento dell’Unione europea, la fine di ogni rispetto delle regole di Maastricht su deficit e debito. Non una semplice rivolta, appunto, ma una rivoluzione.