Il divario tra le due sponde dell’Atlantico si sta pian piano allargando a suon di missive, smentite, e polemiche. La miccia che ha fatto divampare le fiamme nel già precario dialogo tra Usa e alleati, è stata la strage di Sumy, dove il 13 aprile due missili balistici russi si sono abbattuti causando almeno 35 morti e 117 feriti tra i civili che andavano a messa per la Domenica delle Palme.
La condanna del G7 e la strategia di Trump
E così, da un lato, si è abbattuta immediata la condanna unanime della strage considerata un “crimine di guerra“, con il Segretario della Nato, Mark Rutte che, in visita a Odessa, ha denunciato fermamente il raid russo considerandolo “semplicemente oltraggioso” nonché “parte di un terribile schema di attacchi della Russia contro obiettivi e infrastrutture civili“. Mentre, Kaya Kallas, Vicepresidente della Commissione europea, annuncia un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia che presenterò il prossimo 6 maggio.
Leggi Anche
Dall’altro, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che si rifiuta di firmare la condanna del G7, ossia il gruppo dei sette Paesi più industrializzati, del bombardamento, dichiarando che la strage sarebbe avvenuta per “un errore“. Quindi, il Canada, presidente di turno del G7, ha comunicato agli alleati di non poter rilasciare una dichiarazione congiunta sulla strage di Sumy in quanto gli Stati Uniti hanno deciso di non stigmatizzare la violenza russa.
Il comunicato in questione avrebbe dovuto rimarcare la determinazione e la volontà della Russia di portare avanti la guerra in Ucraina. Ma la Casa Bianca ha voluto evitare perché starebbe “lavorando per preservare i margini per i colloqui di pace” e quindi avrebbe voluto evitare di entrare in contrasto con Mosca.
Una interpretazione che coincide con l’unico commento pubblico sull’attacco fatto da Trump domenica dell’Air Force One in cui si parlava genericamente di un “errore russo il fatto che siano stati colpiti i civili. Mentre, a buttare benzina sul fuoco della polemica tra Kiev e Washington ci pensa il Vice statunitense, JD Vance, che provoca il leader ucraino, Volodymyr Zelensky, affermando che sia “assurdo” pensare che gli Stati Uniti siano “dalla parte dei russi” mentre tengono insieme “il suo governo” e il suo sforzo bellico e invocando a sua difesa la mole di armi e sostegno che gli statunitensi hanno dato a Kiev negli ultimi tre anni.
Poi mentre l’olandese Rutte, dopo l’incontro con Zelensky a Odessa, ha ribadito il supporto al popolo ucraino a nome di tutti e 32 i Paesi membri della Nato, il tycoon ha rifiutato l’invito del leader ucraino di visitare il Paese per rendersi conto delle condizioni in cui versa, reagendo, tra le altre cose, con una certa verve stizzita, imputando a Kiev la responsabilità di “essere andato in guerra con un Paese 20 volte più potente“.
Un’accusa che sopraggiunge dopo aver definito “orribile” l’attacco russo e a cui è seguita la correzione in corsa d’opera, ovvero che “è anche responsabilità di Putin che ha invaso“, ma che è passata praticamente in sordina, come una precisazione dovuta più che convinta, visti i trascorsi di Trump con Zelensky, chiamato “dittatore” e al quale ha chiesto di indire elezioni con lo scopo di vederlo estromesso.
Firma mancata: le conseguenze per l’Ucraina e per Trump
Quindi, Trump rompe con il G7, voltando le spalle agli alleati per cercare di mantenere calme le acque in questo tempo di negoziazioni. Insomma, per quieto vivere. Non devono però essere sottovalutate le conseguenze di questa frenata americana, ovvero che il documento difficilmente vedrà la luce perché senza gli Usa il peso politico e l’efficacia perdono valore. E sullo scenario dell’opinione pubblica, il rifiuto potrebbe alimentare ulteriormente le accuse di un’amministrazione trumpiana più sensibile alle richieste di Putin che all’allarme del popolo ucraino aggredito.
© Riproduzione riservata