Guerra e gas: il geo-emblema e l’armatura della politica internazionale

Davide Urso
18 Min di lettura

È almeno dal 2006 che, pur con politiche estere divergenti e litigiose, dis-convergenze strategiche tra i principali attori sullo scacchiere internazionale, vi è un elemento di assoluta centralità e convergenza geo-sistemica: il gas naturale

Quando si analizza una fonte di energia primaria occorre sempre almeno partire dallo studio dei gradi di
importanza, rilevanza e dipendenza di un sistema dalla fonte stessa. Inoltre, in termini di geopolitica
gasiera, bisogna far riferimento al concetto di “geo-sistema” ovvero all’insieme delle risorse disponibili e
potenziali, capacità di sfruttamento, infrastrutture nazionali, regionali e panregionali, interconnessioni,
investimenti lungo la catena del valore della fonte, fino a considerare i sistemi regolatori, l’andamento dei
prezzi e le aspettative dei consumatori.

È almeno dal 2006 che – pur con politiche estere divergenti e litigiose, politiche nazionali instabili, dis-
convergenze strategiche tra i principali attori sullo scacchiere internazionale, ecc. – vi è un elemento di
assoluta centralità e convergenza geo-sistemica: il gas naturale.

Tutti i principali player a livello mondiale (Industrie, Università, Centri di ricerca, Parlamenti, Organizzazioni
internazionali, ecc.) avevano maturato le stesse convinzioni. Il gas naturale possedeva tutte le
caratteristiche per centrare la necessaria modifica del panorama energetico globale. Lo possiamo definire
una fonte multi-skills cioè in possesso di caratteristiche attraenti ad ampio spettro. I numeri dimostravano
che il gas avrebbe giocato un ruolo strategico nella crescita economica mondiale, nella lotta ai
cambiamenti climatici emettendo meno emissioni inquinanti rispetto agli altri combustibili fossili in regime
transitorio (2050-2060), che il Pianeta possedeva risorse gasiere più abbondanti di quanto in precedenza
pensato, che lo sviluppo di queste risorse sarebbe stato molto più economico in termini relativi, che il gas,
in quanto fonte di baseload, avrebbe permesso lo sviluppo e gli investimenti in fonti rinnovabili
intermittenti, che il gas esiste in forma gassosa ma anche liquida aumentandone esponenzialmente i
mercati e la stabilità dei sistemi rispetto alle rotte e ai flussi, la capacità di essere una fonte primaria
capillare e sostenibile in termini di prezzo, ecc. Il tutto con al vertice un elemento decisivo e rappresentato
dai miglioramenti ed innovazioni tecnologiche impattanti lungo tutti gli aspetti sopra citati. In poche
parole, il gas piaceva, piace e va bene praticamente a tutti.

Ciò ha innescato un processo dalle ripercussioni geopolitiche come poche altre nella storia. Ad esempio, le
scoperte di immensi giacimenti di shale gas (non solo in USA ma anche in altri Stati quali Canada,
Venezuela, Brasile, Cina, Australia, regione Mediterranea, ecc.) hanno prodotto significative ramificazioni
geopolitiche ed esercitato una forte influenza sulle scelte di politica estera ed energetica, quindi di
economia degli Stati e delle regioni. Oppure l’attuale dinamica più aggressiva del gas naturale liquefatto
(GNL) porterà inevitabilmente ad una nuova mutazione del panorama geopolitico lungo i mercati gasieri.
Già l’espansione iniziale degli scambi globali di GNL e dei gasdotti a terra transfrontalieri hanno
trasformato la natura del mercato del gas da tre macro-mercati regionali disconnessi e rigidi ad uno
globalizzato con più gasdotti e logistiche di approvvigionamento interconnesso e fluido. Le nuove
interconnessioni influenzeranno ancora di più le tendenze e gli eventi geopolitici.

Ecco però la novità che nessuna analisi ha finora posto in evidenza. Si è innescato un processo decisionale a
“doppia interconnessione”. Ad una conosciuta interconnessione “fonte-geopolitica” se ne è sommata
un’altra finora poco conosciuta “politica-fonte”, innescatasi dalla crisi del conflitto ucraino. La politica sta
con prepotenza togliendo peso alla geologia e alla fonte come scienza nel decidere i parametri da adottare,
se e quanto gas deve essere estratto, trasformato, comprato e consumato, ovvero vi sono infrastrutture
fisiche e mercati in grado di utilizzarlo.

Sono processi influenzanti a vettore opposto. Il primo dal basso all’alto, il secondo dall’alto al basso.
Beninteso, la politica in periodo di crisi è, per sua stessa natura, dominante. Si tratta di capire quanto
impatto avrà il vettore decisionale “politica-fonte” e se esso avrà alla base serie analisi tecnico-economiche
o se sarà più frutto di momentanei impulsi e logiche del cortissimo periodo.

Le scelte della UE nel caso dell’embargo al petrolio russo, contrariamente alle mirabolanti affermazioni
politiche anti-russe, sono sì allineate a questo nuovo vettore decisionale ma con una quota ben visibile del
vettore “fonte-geopolitica” a garanzia di stabilità sistemica e atta ad evitare disastri per maggiori. Ciò
anche grazie a Germania e Ungheria che hanno aggiunto lo scudo dell’interesse nazionale all’armatura
“fonte-geopolitica”. Senza questo ulteriore scudo chissà quale sarebbe stato l’embargo politico sul petrolio
russo. Meglio non pensarci!

Nel caso del gas russo, tale armatura dovrà essere rafforzata. Il motivo risiede principalmente nelle enormi
differenze dei due vettori decisionali. Il primo “fonte-geopolitica” tende a partire dalla scienza e dalle
intrinseche caratteristiche della fonte e a decidere secondo parametri sistemici relativi nazionali e transnazionali avendo come elemento centrale l’industria e come punto di approdo la collettività del sistema stesso, avendo la politica il ruolo di indirizzo e mantenimento. Il secondo “politica-fonte” annulla quasi del tutto l’analisi della fonte e mette in secondo piano l’industria privilegiando gli interessi contingenti e strategici. Se si aggiungono interessi di sicurezza nazionale connessi a momenti di crisi geostrategica, allora si assiste ad un rovesciamento integrale dei processi di analisi e decisionali.

Il gas ne è l’esempio massimo. Usando il vettore “fonte-geopolitica”, il gas è abbondante, sicuro,
ambientalmente sostenibile, poco caro, a-politico, geo-sistemico, fonte di lungo periodo. Usando il vettore
“politica-fonte” in periodo di crisi come nel caso della Russia (Paese produttore ed esportatore), il gas
diventa scarso (va trovato da altre parti con molta difficoltà), insicuro (gas come arma di ricatto strategico e
strumento di pressione), ambientalmente non sostenibile (riparte il mantra del tutto rinnovabili ed
idrogeno), eccessivamente caro (il prezzo, invece di essere la conclusione del processo decisionale, diventa
questione elettorale in grado di far vincere o perdere un’elezione), geopolitico lungo la dinamica
geostrategica e di sicurezza, a-sistemico sia a livello domestico sia infrastrutturale trans-frontaliero, fonte
da sostituire nel breve periodo.

Decenni di studi, scienza, investimenti, infrastrutture, piani connessi anche allo sviluppo di altre fonti, ecc.
ribaltati in 3 mesi! Oltre 15 anni di entusiasmi gasieri, affermazioni scientifico-politico-ambientali quali
“new age del gas”, “oro blu”, ecc. trasformatisi in una demonizzazione del gas non in quanto fonte primaria
di energia ma in quanto la necessità primaria è la derussificazione politica. Il passo successivo, ovvero far
entrare nell’immaginario collettivo la necessità di degassificarsi il prima possibile, è stata questione di
giorni. Una follia!

Ogni giorno che passa vi sono stime peggiorative sulla tenuta dei sistemi degli Stati europei in caso di
embargo totale e rapido sul gas russo. Oggi a Bruxelles si trovano sullo stesso tavolo stime che sostengono
che non cambierebbe quasi niente, altre secondo cui l’inverno senza gas russo vedrebbe una contrazione
dei consumi, altre che anticipano una recessione tecnica, altre che aggiungono alla recessione tecnica una
perdita sostanziale di posti di lavoro, altre seriamente catastrofiste, e chi più ne ha più ne metta.
Occorre trovare il punto di equilibrio geoenergetico senza calpestare gli obiettivi di politica estera e
climatico-ambientale. Non sarà un’operazione facile, ma occorre partire da basi solide, dalla conoscenza
che le reti trans-europee nel settore dell’energia (TEN-E) hanno contribuito a creare nella UE
un’infrastruttura del gas resiliente e interconnessa, e dal riconoscere come e cosa in questi anni ha
permesso all’Europa di avere una copertura sistemico-industriale del baseload giornaliero basata su
carbone (uscito di scena), gas naturale e nucleare (speriamo rientrato in scena) e che solo grazie a queste
tre fonti di baseload che sono stati possibili i massicci investimenti e gli enormi incentivi alle fonti
rinnovabili (FER).

A differenza del petrolio che è soprattutto una risorsa mobile con un 20% in arrivo via oleodotto in Europa
dalla Russia (non a caso proprio la quota fuori embargo UE), l’Europa dipende quasi interamente dal gas via
tubo, che non è mobile. Il GNL soddisfa ad oggi meno del 30% degli scambi internazionali di gas e sono
perlopiù concentrati in Asia. I 170 miliardi di metri cubi (bcm) di gas importati in Europa nel 2021 dalla
Russia non si potranno mai sostituire né con un altro unico esportatore, né con multi-rotte geografiche.
Turkmenistan, Azerbaijan, Qatar, Iraq, Algeria, Congo, Mozambico, Egitto, ecc. sono (più o meno!)
benvenuti ma richiedono mesi di negoziazione e anni per attivare i contratti. E parliamo della via più facile,
ovvero sostituire gas russo con altro gas sfruttando le infrastrutture e le interconnessioni esistenti.
Sostituire i 170 bcm con fonti diverse dal gas richiederebbe programmi di sviluppo di lungo periodo e
ammodernamenti lungo le reti elettriche nazionali e trans-frontaliere, accordi sulle compensazioni da
destinare per la perdita di importazioni di gas russo, cancellazione o riprogrammazione di molti PIC
europei, investimenti massicci per ammodernare e costruire nuove infrastrutture, revisione di quasi tutti i
Piani nazionali degli Stati membri, ecc. Il tutto è incompatibile con la vulgata che vorrebbe una
derussificazione gasiera in tempi rapidi con insieme tenuta sistemica, sostenibilità dei prezzi e senza
pregiudicare gli obiettivi climatico-ambientali.

La realtà è che una derussificazione gasiera accelerata comporterà un calo pesante dei consumi, un
mantenersi alto dei prezzi e una maggiore povertà energetica nel medio periodo, che incideranno in modo
peggiorativo sulla qualità di vita dei cittadini soprattutto europei. Pertanto, i tempi di una reale
derussificazione gasiera dovranno essere più lunghi se si vogliono salvaguardare gli assetti socio-
economico-sistemici. La politica dovrebbe prenderne atto e decidere di conseguenza. Occorre coraggio e
maturità in periodo di crisi.

L’UE potrebbe iniziare con un embargo psico-progressivo del tipo: bando al GNL russo, non rinnovo dei
contratti che andranno a scadenza quest’anno (circa il 15% dei volumi), rispetto dei contratti a lungo
termine (un ulteriore 40% scadrà nel 2028) fino a completa derussificazione gasiera. Ciò attirerebbe
consenso popolare, salvaguarderebbe molti sistemi-Paese e permetterebbe solide scelte di medio-lungo
periodo atte a definire mix energetici sostenibili su base scientifica, economica, eco-ambientale e sociale.
Nel caso dell’Italia, il ministro Cingolani, in audizione a fine maggio davanti alla Commissione Ambiente
della Camera, con realismo e senso di responsabilità ha sostenuto un piano di uscita dai 29 bcm di gas che
l‘Italia importa dalla Russia ogni anno entro il 2024, grazie a 25 bcm comprato da altri fornitori e 4 bcm
rimpiazzati da FER e risparmio energetico. Probabilmente, anche grazie alle politiche d’incentivi nazionali
decise dal Governo, la quota FER potrebbe arrivare a rimpiazzare circa 6 bcm, con circa 20GW di nuove FER
installate e una produzione di circa 30TWh di elettricità (fattore 1.500 spinto dal fotovoltaico). Ma questo
significa che anche incentivando e spingendo le FER, l’Italia dovrà comunque coprire circa 19-20 bcm di
energia baseload mantenendo sostenibili i prezzi e sfruttando la rete infrastrutturale gasiera esistente e già
ben interconnessa grazie a Snam, un’eccellenza non solo italiana ma mondiale. Un primo buon margine
riguarda il gas estratto e prodotto in Italia. Oggi tale quota è intorno al 4.4% dei consumi totali pari a circa
3.34 bcm. Considerando le riserve provate nazionali, senza una radicale modifica regolatoria, è prevedibile
un aumento di oltre 2 bcm annui nei prossimi 2-3 anni. Sempre circa 17-18 bcm di baseload vanno trovati e
subito. Anche perché il giochetto dell’uso tattico degli stoccaggi per calmierare gli aumenti dei prezzi
nazionali non può continuare troppo ed è rischioso. Già il PUN italiano è disgraziatamente il più alto
d’Europa. L’Italia sta tagliando fortemente l’import di gas ma i dati sui consumi sono più o meno stabili.
Ergo prendiamo il gas che ci serve dai nostri stoccaggi, oggi scesi a 13 GWh contro i 24 GWh dello stesso
periodo del 2021. Attenzione a questo giochetto. Se da un lato serve a contenere il rialzo dei prezzi (già
non sostenibili in Italia), a rafforzare il consenso pubblico (quasi l’80% del taglio dell’import è di
provenienza russa) e a far vedere al mondo che l’Italia è in prima fila per ridurre i proventi fossili di Mosca
nel tentativo di accelerare la fine del conflitto in corso, dall’altro lato rischiamo di arrivare corti in inverno,
di essere vulnerabili a meteo e a schizofrenie geopolitiche, e di essere bacchettati dalla UE avendo oggi
solo 1/3 del livello di stoccaggio che Bruxelles richiederebbe. Beninteso, non siamo certamente i soli.
Secondo Gas Infrastructure Europe, al 30 maggio le riserve di gas negli UGS europei sono state reintegrate
di 20,4 bcm. Per raggiungere il livello richiesto dalla UE del 90% delle strutture di stoccaggio, dovranno
essere pompati oltre 42 bcm.

Inoltre, un’uscita progressiva ben equilibrata e strutturata dell’Europa dal gas russo colpirebbe duramente
Mosca alle tasche ma senza esacerbarne gli animi già troppo bellicosi. Infatti, mentre il petrolio può trovare
nuovi mercati e un riallineamento dei parametri nel breve periodo, nel caso del gas via tubo diretto in
Europa le cose sono rigide. O Mosca pompa il gas nei gasdotti, anche a flussi multi-direzionali ma sempre
nell’area pan-europea, oppure meglio rimpinguare gli stoccaggi nazionali o mettere in stand-by i giacimenti
in attesa di tempi migliori.

Fondamentale è avere chiari tre elementi. Primo, nel 2021 il 74% delle esportazioni di gas naturale della
Russia sono confluite nell‘Europa/OCSE, pari ad una dipendenza panregionale vicina al 40%. Il rimanente
26% è equamente diviso tra Asia-Oceania e resto del mondo. Secondo, l’84% del gas naturale esportato
dalla Russia è passato per gasdotti e il restante 16% spedito via nave come GNL. Terzo, il gas è utilizzato
lungo l’intero comparto energetico e non solo per la generazione di elettricità. Quest’ultima incide per
circa il 25% dell’intero settore energetico. Per Mosca, la de-europeizzazione gasiera sarà un processo lungo
e costoso.

Scordiamoci quindi che la UE possa fare a meno del gas russo nell’immediato, così come ridiamo della
battuta di Putin che vorrebbe una sostituzione dei volumi di gas russo esportato in Europa attraverso
l’espansione delle infrastrutture gasiere in Africa, America Latina e Asia-Pacifico. Nel 2021, Mosca ha
esportato 170 bcm in Europa, contro i 16.5 bcm in Cina. Anche spingendo al massimo i progetti in corso, si
potrebbero esportare in Cina circa 70-80 bcm a partire dal 2032. Più lunghi sarebbero i tempi per i
rimanenti 100 bcm negli altri continenti.

In conclusione, si sta arrivando, sotto la spinta dell’emotività del conflitto ucraino, ad accelerare la
creazione di un geo-sistema in cui il peso del gas naturale su scala globale dipenderà dal momentum delle
politiche litigiose dei Paesi dotati di risorse naturali, dall’emotività dei Paesi importatori a vario livello di
dipendenza, e dalle priorità a-scientifiche elettorali nazionali. Si tratta di un modus operandi pericoloso se
non calmierato da una buona d’armatura “fonte-geopolitica”. Il rischio è di mettere a repentaglio enormi investimenti in infrastrutture, sviluppo di ulteriori fonti di approvvigionamento, attività di R&S industriali
ed ambientali, vantaggi geografici a livello regionale e panregionale, e di accelerare la deviazione verso mix
energetici ancora poco sostenibili su basi scientifica, ambientale ed economico-finanziaria. Il futuro delle
FER, degli accumuli e dell’efficienza energetica passano per l’esistenza oggi di una fonte baseload
continuativa, programmabile, sicura e non soggetta a schizofrenie geopolitiche. Il nucleare è l’unica fonte
primaria di energia a possedere tutte queste caratteristiche.

A livello più generale, lo stesso pericoloso approccio potrebbe essere applicato con illimitata rapidità e
assenza di analisi seria ad ogni fonte e prodotto, con buona pace degli equilibri di sistema e della solidità
dei piani vitali di medio-lungo periodo degli Stati.

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