Una donna di 72 anni, dal viso pulito, gli occhi accesi, i vestiti in ordine, siede in un’aula di tribunale di Avignone, in Francia, portando sulle sue spalle il peso di un compito che forse non avrebbe dovuto assumersi lei. Gisele Pelicot ha però deciso di agire dove milioni di altri hanno fallito. Ha deciso, di sua spontanea volontà, pensando a sua figlia, ai suoi nipoti e a tutte le altre donne del mondo, di mostrare il suo volto e di far conoscere la sua storia, pur di ottenere giustizia.
Solo quattro anni fa, Gisele ha scoperto che l’uomo con cui ha trascorso gran parte della sua esistenza, con cui ha concepito e cresciuto tre figli, con cui ha diviso le spese per l’acquisto di una casa, discusso delle difficoltà del matrimonio e cenato e dormito migliaia di volte, era in realtà uno stupratore seriale. La vittima preferita, anche se in questo caso il termine sembra quasi un insulto, sarebbe stata proprio lei.
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Drogata e senza alcun tipo di contezza, la donna è stata violentata per circa 10 anni. Da suo marito e da 50 altri uomini, anche se per le autorità francesi potrebbe trattarsi di un numero ben più spaventoso. I continui vuoti di memoria, i dolori nelle parti intime e la continua stanchezza l’avrebbero convinta ad un certo punto di essere afflitta da una terribile malattia degenerativa. In verità, Gisele è sanissima e la realtà a cui è stata costretta a far fronte è più terrificante di qualunque tipo di patologia.
Nonostante lo shock e la costernazione dello scoprire le brutalità a cui suo marito l’ha sottoposta, Gisele ha deciso di superare le sue paure e dimostrare alla Francia e al mondo intero che la vergogna non è un sentimento da associare alle vittime, ma sempre ai loro carnefici. “Non mi sono pentita di aver deciso di avere un processo a porte aperte“, ha infatti dichiarato, subito dopo la chiusura dell’udienza di due giorni fa, dopo aver scoperto che il suo ex marito era stato condannato a 20 anni di carcere, la pena massima in Francia per il reato di violenza sessuale aggravata.
“Penso alle vittime non riconosciute. Voglio che sappiate che condividiamo la stessa lotta“. Queste parole, pronunciate con una certa delicatezza ed allo stesso tempo con una potenza prorompente, hanno scavato un solco nelle coscienze di chi, ad oggi, continua a faticare a riconoscersi come vittima e continua ad incolpare se stessa, o se stesso, per le violenze subite. Gisele Pelicot ha deciso di mostrare il suo volto, il suo corpo un tempo martoriato, per dimostrare che non sempre la giustizia è ingiusta e che, anche se il processo è lungo e doloroso, i colpevoli vanno puniti e soprattutto riconosciuti.
Gisele si rivolge a tutte le donne, sia alle altre vittime di suo marito – perché ora che il vaso di Pandora è stato scoperchiato continuano a uscire i mali del mondo – sia a tutti coloro che hanno dovuto subire vessazioni e violenze. Non deve esistere pentimento o vergogna che non siano quelli del colpevole. Gisele ha deciso di tenere il cognome del suo ex marito e stupratore, perché convinta che anche questo possa essere un simbolo e non una macchia. Perché nulla del suo passato deve essere dimenticato e soprattutto perché le sue nipoti portano questo stesso cognome e non deve divenire per loro la cicatrice della vergogna, ma la certificazione del coraggio.
Mentre in molti continuano quindi a chiedersi in che modo un’intera famiglia, e Gisele stessa, non si siano resi conto di quanto accaduto, forse bisognerebbe iniziare a chiedersi perché la 72enne sia stata costretta ad assumersi un peso del genere. Perché divenire un simbolo della lotta alla violenza di genere, ai soprusi, al patriarcato? Perché sacrificare il proprio anonimato per rendere le donne del mondo più libere, più consapevoli e soprattutto meno colpevoli?
La risposta si trova proprio nella domanda di partenza. Il solo chiedersi, sin da subito, come nessuno abbia notato nulla, sposta la colpevolezza dal carnefice alla vittima. Perché non ti sei protetta? Perché non sei stata più attenta? In pochi, però, si chiedono perché nessuno abbia mai denunciato. Nessuno tra i 50 uomini condannati, tra chi ha dichiarato fino all’ultimo di pensare che fosse consenziente e stesse solo fingendo di dormire e chi sembrava consapevole della sua incoscienza, ha pensato di fermarsi, rifiutare il rapporto e recarsi a denunciare.
Cinquanta uomini diversi, più Dominique Pelicot, tutti di estrazione sociale, età e professioni differenti, hanno preferito tacere. Qualcuno è anche tornato per stuprare nuovamente Gisele. La prova che, spesso, il mostro si nasconde nei posti più impensabili. A volte anche all’interno della propria casa. Lo sa bene la figlia di Gisele, che ha scoperto di essere stata fotografata nuda e incosciente dal suo stesso padre, che ha poi creato una cartella apposita sul suo Pc, denominata “foto di mia figlia nuda“.
Così, Gisele, portando sulle sue spalle il peso di una intera generazione, ma anche di quelle passate, ha affrontato telecamere e flash, rilasciato dichiarazioni e difeso la sua famiglia. Il tutto per rispondere al grido silenzioso di chi non ha avuto le stesse possibilità, di chi ha avuto troppa paura, di chi si è fatto condizionare dalle teorie di una società che non accetta che il femminile non debba avere sempre più responsabilità del maschile. Una donna di 72 anni, madre e nonna, ha deciso di divenire la matriarca di una intera generazione, di immolarsi in nome dei più deboli, per dare coraggio, per dimostrare che una rete di donne è ovviamente più forte di una vittima, lasciata sola.
E anche per questo, le centinaia di persone fuori dal tribunale di Avignone, con in mano cartelloni recanti la scritta “Grazie Gisele“, diventano il simbolo di una parte di società che ha capito, che ha compreso lo sforzo di una donna che, nel momento più difficile della sua vita, ha lasciato da parte se stessa per mettere al centro una comunità e per dare ad essa speranza, forza, coraggio, determinazione, sfrontatezza e soprattutto ambizione. Questo compito, forse, non spettava a Gisele, ma oggi questa donna non può che godersi e rinforzarsi della gratitudine e della riconoscenza di interi Paesi che, chissà, potranno dire di aver imparato qualcosa.
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