Io Capitano: l’ultimo capolavoro di Garrone dove la vita di tutti i migranti è non-morte

L’Africa squillante, il deserto infinito, le prigioni libiche: il regista iridato a Venezia 2023 porta sul grande schermo la vicenda universale della migrazione

Emanuela Felle
5 Min di lettura

Non conosce iati artistici Matteo Garrone, che torna poco dopo il suo Pinocchio del 2019 con un film in cui il protagonista è il viaggio, segnato dalla morte e dalla lotta per la vita, soprattutto degli altri. Leone d’argento alla miglior regia alla Mostra del cinema di Venezia di quest’anno, salutato con tredici minuti di standing ovation, Io, Capitano è l’ultima fatica del regista di Dogman, pluripremiata mano alla cinepresa italiana, che ci conferma che in Italia l’immaginazione cinematografica è viva e vegeta.

Io Capitano: dal Senegal all’Europa

In centoventuno minuti tremendi di angoscia, sorrisi amari e ingenua esaltazione, si incastona la traversata dal Senegal all’immaginata e luminosa Europa di Seydou e Moussa, due adolescenti poco più che sedicenni, eppure già adulti, se la crescita è ciò che ha a che fare con lo strappo dalle prescrizioni genitoriali, con il dubitare del proprio luogo e con l’immaginare aldilà dei confini della propria terra. C’è, dunque, in Io, Capitano il viaggio per la vita, dove la vita diventa sinonimo di non-morte, si estende dalla casa natia al deserto e poi al Mar Mediterraneo – più tombe che posti di passaggio – e infine tout droit, sempre dritto, verso il Nord di una nuova realtà.

Garrone, il regista-intermediario

Dietro la cinepresa, si gioca l’impresa collettiva multiculturale e multifocale del raccontare con onestà le verità della migrazione. Con gli stessi protagonisti del film, Garrone non è che regista-intermediario, in fase di scrittura e in fase di girato, riuscendo nell’arduo compito di connettere contesti diversi, tenerezza e massacro, senza scadere nello sguardo inevitabilmente bianco e coloniale.

Io Capitano: l’Africa è femmina

Il Senegal dei primi minuti di racconto presenta un’Africa non sconfitta, ma allegra, solare e a percussioni. Nella serata del Sabar, festa tradizionale della cultura wolof in cui le donne ballano su ritmi incessanti, si scatena un’esplosione di suoni e colori. Già dal primo momento, è un’umanità tutta al femminile a dare il pentagramma delle emozioni: dalla felicità spropositata delle giovani nella Dakar famigliare e domestica alla preoccupazione materna quando il protagonista confessa di voler partire alla volta dell’Europa.

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Matteo Garrone e Seydou Sarr alla Mostra del Cinema di Venezia 2023

La vicenda universale della migrazione

“L’Europa ci aspetta. Sarai una star e firmerai tu gli autografi ai bianchi”, così Moussa sprona il cugino Seydou a tentare il viaggio e ad abbandonare la paura. Io, Capitano è anche in questo il racconto odissiaco scevro di retorica. Fin dal dettaglio dei gomiti sbucciati di Seydou della prima istantanea, non c’è traccia di eroi e anti-eroi, buoni o cattivi. La vicenda della migrazione è universale: è la vicenda di chi emigra, di chi pone violenza e di chi osserva.

La tragedia collettiva si esplicita in chi cade dal furgone in mezzo al Sahara e viene abbandonato dai sordi speculatori, nei piedi scalzi e sanguinanti di una donna nel deserto, nella prigione libica in cui non si fa nessuno sconto alla rappresentazione della violenza: dalla cera rovente sui corpi nudi agli incaprettamenti.

Il richiamo della madre

Nella violenza inaudita, sono le lacrime di Seydou a eseguire un taglio netto e preciso giù per lo stomaco degli spettatori, sconquassati dalle urla del protagonista che in sogno chiama la madre: YAAY!  Il tempo del deserto, nel giorno abbagliante e nella sera violetta, e il tempo della prigione è il tempo della vita e della morte, mescolate in una giustapposizione infernale di istantanee e battute. Dire a mamma che è vivo, che non è morto, questo è tutto ciò che Seydou vorrebbe.

Le prime parole di Seydou: perchè “Io Capitano”

Ulteriormente protagonista dell’opera filmica, è l’età dei protagonisti. Nei loro pochi sedici anni, straborda il senso di attaccamento alla vita, alla giustizia, all’amicizia, alla solidarietà umana, uniti a un’ingenuità che fa tenerezza e che pure devasta. “Io Capitano” sono le prime parole che Seydou dice appena avvistata la terra italiana: ha guidato un barcone pieno di gente con l’intento preciso di portare tutti in salvo. E nessuno, nel film, è morto. Anzi, è sbocciata la vita. Sotto lo sguardo muto della Guardia costiera italiana, la vita ha trovato la sua strada negli interstizi della sofferenza. Se Seydou e Moussa diventeranno star, lo sanno, in cuor loro, solo gli spettatori.

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