Alfabeto braille, imparare dalla cecità per guardare meglio

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Oggi è la Giornata Mondiale dell’alfabeto tattile, inventato quasi due secoli fa da Braille. Dialogo con l’esperta Mariateresa Gilbo fra arte e valore della diversità

Gli occhi distraggono. Con le mani, invece, non ci sono fraintendimenti. L’alfabeto braille, inventato dal professor Louis Braille nel primo Ottocento, è il sistema utilizzato per comunicare da persone cieche e ipovedenti. Oggi è la giornata mondiale, che cade ogni 4 gennaio in occasione dell’anniversario di nascita del suo inventore che perse la vista all’età di tre anni. 

Mariateresa Gilbo è un’esperta in disabilità sensoriali, dalle competenze multipotenziali e senza dubbio alcuno sul valore della diversità: “Mettersi nei panni degli altri, di chi ha un senso in meno, ma altri in più, ti fa capire quanto è speciale quel mondo. Se chiudi gli occhi, tutto il resto si accende”.

L’alfabeto braille ha rivoluzionato la vita delle persone cieche, offrendo loro un sistema di comunicazione, ma anche di relazione. Come nasce? Da cosa deriva l’intuizione di una comunicazione fatta con le mani, che si sente e non si vede?

“Braille è un adolescente quando inventa questo codice. Lo elabora a partire da un codice utilizzato come scrittura notturna dai soldati durante la guerra, per poter comunicare al buio e non poter essere sentiti dai nemici. È oggi un codice applicabile a tutte le lingue con l’alfabeto latino, composto da 6 puntini organizzati a due a due in verticale. È utilizzato anche per fare equazioni matematiche”.

Un sistema in cui la voce e gli occhi sono di troppo e che ti porta a riscoprire la sensibilità della pelle.

“Del corso di braille, ricordo, infatti, l’emozione di leggere le prime frasi. Mentalmente, ti fa uscire dagli schemi. Per scrivere in braille devi capovolgere il foglio e scrivere da destra verso sinistra, così che si accendono parti del cervello altrimenti sopite. Lo ricordo come un lavoro inizialmente stancante. Si tratta, d’altronde, di imparare una nuova lingua per cui, però, servono i polpastrelli, che vanno risvegliati. Una persona cieca legge con due mani, a partire dal mignolo sinistro. È una capacità tattile eccezionale, difficile da recuperare in età matura, a meno che non si compia un lavoro cognitivo costante e faticoso. Gli occhi distraggono, le mani sono meno soggette a equivoci. Gli occhi ti permettono di guardarti attorno, ma ti distraggono da quello che c’è dentro”.

Lei è un interprete LIS, esperta di didattica e comunicazione nell’arte, studiosa di accessibilità museale. Quando ha provato il desiderio di un percorso così specializzato che passa dalla comprensione della diversità e anche, volendo, dalla consapevolezza di limiti, che sono soprattutto propri e non della persona disabile?

“Il percorso fatto all’Accademia delle Belle Arti mi ha permesso di fare molta pratica e vivere diverse esperienze formative: il mondo del lavoro, il contatto con le persone, la progettazione. Ma soprattutto, quando ero all’Istituto statale per sordi di Roma ho visto per la prima volta una persona segnare, rivolgendosi a me. Ho provato imbarazzo. Non sapevo come relazionarmi, mi mancava un canale. Volevo comunicare, rispondere e dire la mia e, questo, mi ha portato allo studio della lingua dei segni. Poi è arrivata l’arte, il master di accessibilità museale e tecnologie assistite all’Università di Cassino. Lì ho conosciuto l’arte dal punto di vista della disabilità sensoriale: come un cieco o un sordo si approccia l’arte, come rendere l’arte fruibile”.

Come si può rendere l’arte fruibile?

“Nel percorso universitario a Cassino, in collaborazione con la Galleria Borghese, abbiamo costruito modellini di sculture del Bernini che possono essere toccati. Il mondo dell’accessibilità museale è molto oneroso. Un modellino ha dei costi molto alti ed è per questo che i musei non ne sono forniti.

L’arte è concepita solo come visiva. Purtroppo, non si può toccare. Questo è un limite. Le sculture, non solo per i ciechi, nel momento in cui le tocchi, hanno un altro senso. Gli occhi vedono due dimensioni, le mani ti danno altre dimensioni, ti danno pattern, ti danno temperatura. Una scultura, se la tocchi, diventa tua. I vedenti hanno i sensi spenti, addormentanti, abbiamo la cultura del guardare e non toccare”.

Lei parla della diversità e della disabilità come inevitabile origine di arricchimento. Cosa ci manca per compiere insieme un cambio di passo e abbattere i pregiudizi?

Sì, la disabilità è un mondo molto ricco, ma ci si approccia sempre con imbarazzo, non si sa come relazionarsi. Manca l’educazione al rapporto, alla comunicazione con altre forme di abilità. Viviamo in una società che tende a nascondere, che non sa vedere la diversità, per pregiudizio introiettato. Nella nostra cultura vedente esiste la parola “ciecamente”, inteso come atto di fede e di fiducia. Dovremmo affidarci, come fa un cieco, invece abbiamo molti pregiudizi e retropensieri. Un cieco si affida perché non può fare altrimenti e questo rende il suo cuore molto più accogliente. Io inviterei le persone a fidarsi ciecamente”.

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