“Esistono miti e leggende di cui io, in tanti anni, e anche quando ero in azienda, sentivo parlare. Cose spesso senza senso: di fondo sono uno storico, e ho voluto scrivere la mia versione dei fatti che mi coinvolgono, attraverso un libro costruito con documenti. Non parlando a braccio, non ascoltando racconti. Ho voluto invece fissare dati oggettivi su cui si può basare la narrazione.
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E cioè per un libro che alla fine fa anche il ritratto di due secoli di storia italiana, con forti ingerenze americane. Credo di aver spiegato bene la storia di una grande famiglia allargata: da Giuseppe Caprotti, primo industriale, a Peppino Caprotti, nonno artefice dell’ascesa economica e sociale della mia famiglia nel dopoguerra, fino a Marco Brunelli, trait d’union tra Rockefeller con i soci italiani, e primo presidente della Supermarkets Italiani”.
Così parla, con la pacatezza e l’intelligenza di una cultura che rende razionali anche nel dramma, Giuseppe Caprotti, figlio primogenito di Bernardo, fondatore di Esselunga. Consapevole che i personaggi pubblici, per mantenere privata la loro vita privata, debbano esercitarsi nel gioco del segreto e rimanere più sobri di qualsiasi altro.
Ora però basta essere silenziosi, è uscito un libro importante, dal titolo scelto non a caso “Le ossa dei Caprotti”, edito da Feltrinelli, che fa il punto su di una saga familiare anche troppo raccontata e spesso, forse, lontana dalla realtà.
Caprotti, questo libro sembra piuttosto un documento, talmente è circostanziato
“È un saggio di storia documentato, che descrive il percorso familiare e imprenditoriale dei Caprotti, iniziato trecento anni fa in Brianza. La famiglia è stata protagonista della prima rivoluzione industriale, i Caprotti passano dall’agricoltura alla produzione dei tessuti. Ho scritto questo libro e mi ci è voluto tempo, perché tutte le cose che racconto, si basano sullo studio degli archivi Rockefeller. Archivi che non erano mai stati presi in considerazione se non parzialmente.
La memoria storica dell’azienda si era dimenticata di una parte di quello che contenevano, e allora ho pensato di mettere mano a questi documenti. Basilari per la verità storica non solo per la mia famiglia, ma per questo Paese antiamericano, che ha amore e odio per gli americani, ma che deve all’America quasi tutto. La mia famiglia deve tutto agli americani, che sia mio nonno con il piano Marshall, che Bernardo con Rockefeller, ma anche io”.
Perché questo libro sette anni dopo la morte di suo padre?
“Avevo diversi motivi, l’ho pubblicato adesso perché dopo tutto quel che è accaduto, tra cause civili e penali, sono riuscito ad uscire da un lockdown mentale che per me è durato quasi vent’anni. E non è stato semplice. Ho tenuto dentro molte sensazioni, emozioni, ma anche frustrazioni e offese da quando sono stato allontanato dall’azienda di famiglia, ed era il 2004.
L’ho scritto principalmente per i miei figli: se avranno voglia di approfondire potranno trovare le loro risposte, al di là di quello che hanno raccontato su di me o che hanno sentito dire. Un libro anche per dire che non è assolutamente vero che sotto la mia gestione Esselunga stava andando male, come non è vero che i miei dirigenti o io abbiamo rubato. Per chiarire ho voluto raccontare fatti, ricostruiti con documenti e lettere perché diventasse un vero saggio sulla nascita di una grande azienda italiana”.
Sono passati circa vent’anni durante i quali è stato bersagliato da notizie che la mettevano in cattiva luce, come ha sopportato?
“Ho avuto una bella famiglia con tre figli, e quindi questo mi ha aiutato molto. Adesso non provo più odio, sono sereno e non sono ossessionato né da Esselunga né da mio padre. Ho provato, e ci sono riuscito, a tirare fuori dal cappello tutti i documenti che avevamo in casa, dove si litiga da 200 anni. E poi ho voluto dare il giusto riconoscimento ai tanti, soci e familiari, ma anche figli, che hanno contribuito a rendere grande Esselunga. Un libro per molti versi necessario”.
Caprotti, le dispute legali e familiari quanto l’hanno ferita?
“Di certo ho vissuto situazioni abbastanza scioccanti: e non ne ho passate poche. Già a dieci anni ho visto la nonna spinta fuori dall’appartamento o anche papà e la zia cercare di menarsi: non sono cose belle, e purtroppo lasciano segni. Però ora va tutto bene, il tempo aiuta a somatizzare e si cerca di vedere altro, si dà valore e si apprezzano cose come gli affetti, le amicizie, stare coi figli e coltivare interessi diversi”.
Le ossa dei Caprotti: perché questo titolo?
“Io credo che Bernardo fosse un po’ ossessionato dalla morte e quindi ci sono varie situazioni molto particolari legate a lui. Da bambini ci portava a vedere la tomba di San Bernardino alle Ossa a Milano, un santuario decorato con ossa e teschi di molti secoli. E c’era pure il San Valerio: ho avuto addirittura in casa il suo sarcofago, perché in chiesa c’era umidità e lo diedero a me da tenere. In certi momenti era pure divertente perché mio figlio più piccolo mi diceva: papà mi porti a vedere il santo? Ricordo anche pranzi di Natale surreali, durante i quali Bernardo preferiva i discorsi del Duce ai cori natalizi”.
Caprotti, la prima immagine che le viene in mette di suo padre?
“Per essere molto positivo, la prima immagine è legata a una canzone: ‘Vengo anch’io, no tu no’, di Enzo Jannacci. Insieme ascoltavamo la musica di Jannacci e anche ora mi commuove sempre ascoltarlo, perché penso a lui e mi riporta a quei rari momenti di felicità tra padre e figlio. Bernardo era anche una persona molto piacevole e divertente, soprattutto da giovane, aveva un grande charme e un carisma indiscutibile, fuori dal comune”.
Quanto costa essere Giuseppe Caprotti?
“Costa un sentimento di grandissima solitudine, perché per chi ha vissuto quello che ho vissuto io, tutto è abbastanza complicato. Si supererà col tempo”.
A recuperare i detriti di una vita affettiva per certi versi cieca, sicuramente spietata
Titti Giuliani Foti
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